Colpevoli la ricerca
ossessiva fuori tempo

Le cronache dello spaventoso incidente di Alex Zanardi, avvenuto otto giorni fa, erano da subito accompagnate da resoconti implausibili e non verificati sulle cause. Certo, prevaleva il dolore per l’ennesima dura prova alla quale la vita ha sottoposto questo uomo speciale: la sorella morta giovanissima in un incidente stradale e nel 2001 lo schianto durante una gara di Formula Cart, nel quale perse le gambe. Ma la forza d’animo e fisica hanno trasformato quegli incroci con i baratri in un amore all’esistenza contagioso. Alex Zanardi è tornato in pista con la «handbike», una bicicletta a tre ruote azionata dalle mani, con la quale ha mietuto ori alle Paralimpiadi e titoli mondiali.

Questo campione è il volto dell’Italia più bella, segnato da un sorriso ironico e radioso, capace di pronunciare parole mai sporcate dal minimo rancore, ma un inno alla gioia, più forte del male e delle disgrazie. È impossibile non volergli bene: è un testimone che vorremmo emulare nello spirito.

Le cronache dell’incidente sulle strade di casa di Zanardi, in Toscana, durante la staffetta «Obiettivo tricolore» fra amici in bici scortati dalla polizia locale, erano infarcite di tesi insinuanti e gravi. A provocare lo schianto contro il camion sarebbe stata una distrazione dell’ex pilota di Formula 1, impegnato poco prima in un selfie o forse in una telefonata. Ipotesi buttate lì con una leggerezza paurosa e senza il minimo riscontro, sparite il giorno successivo. La gara, si è scritto, non aveva l’autorizzazione: ma non era una gara. Di chi è la colpa? Dei sindaci che non hanno chiuso le strade? Di un errore del camionista? Degli organizzatori della corsa che non era una corsa? O peggio ancora è stato - sentenziava in un titolo un quotidiano domenica mattina scorsa - «L’errore fatale di Zanardi»? Ci sfugge come l’identificazione di un colpevole, sia pure lo stesso campione, possa aggiungere o togliere qualcosa a ciò che è accaduto. Non fosse altro perché, col passare delle ore, l’impressione è che si sia trattato di una fatalità (magari provocata da un problema meccanico, da una rottura improvvisa della handbike).

Eppure c’è chi non riesce a rassegnarsi. L’impossibilità di controllare fino in fondo ogni aspetto della nostra vita, in primis la nascita e la morte, è di per sé inaccettabile. Il fatto che possano accadere vicende che non decidiamo e governiamo noi, a volte persino inspiegabili, non è allettante come un innocente da colpevolizzare o un colpevole non ancora scoperto. «Un incidente senza colpevoli» titolava con mesta rassegnazione un altro quotidiano nazionale l’altro ieri. Le perizie tecniche stabiliranno se si è trattato di un errore umano o di un guasto, in un tratto di strada maltenuto. Ma era proprio necessario partire subito con la caccia al colpevole? Non si poteva attendere un paio di giorni, lasciando quel tempo unicamente al dolore e alla vicinanza a un uomo che lotta tra la vita e la morte? Un’attesa che avrebbe dato anche la possibilità di avere qualche elemento di valutazione più solido sulle cause dell’incidente.

Abbiamo assistito alla stessa caccia al colpevole anche nell’emergenza coronavirus. Nella Bergamasca le persone morivano a decine e sui social si era già scatenato un dibattito rancoroso tra commentatori privi di competenze che però indicavano come riformare la sanità e additavano i rei, senza appello. Perfino per medici e infermieri, eroi allora, qualcosa è cambiato. L’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa, insieme alla Polonia, dove i camici bianchi possono essere perseguiti penalmente per colpa medica. Come rilevato dal sindacato Anaao Assomed, è partita un’ondata di denunce e di procedimenti contro gli ex eroi intentati da familiari che hanno perso i loro cari in ospedale per il Covid. Grande rispetto per i parenti delle vittime, ma andrebbero tenute in conto, nella caccia al colpevole, anche le condizioni durissime in cui hanno operato i medici al cospetto di una pandemia sconosciuta e di limiti oggettivi (dalla carenza di posti nelle terapie intensive all’assenza di farmaci specifici per curare il virus). In tempi ordinari, ogni anno si aprono in Italia 35 mila azioni legali contro camici bianchi e strutture sanitarie pubbliche. Le denunce penali a loro carico che arrivano a processo sono solo il 5%. E non sono ancora colpevoli, fino al terzo grado di giudizio.

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