Come sarà l’Italia?
Un mistero da svelare

Cominciamo a lasciarci alle spalle termini discussi come «guerra» e prendiamo confidenza con la dimensione civile, quella della «ricostruzione», in parallelo con la rinascita post 1945. Le analogie valgono per i propri limiti retorici: un esempio da imitare o un errore da correggere. Quell’Italia e quegli italiani, esemplari e irripetibili, non ci sono più e stiamo parlando di un altro mondo: dobbiamo ripartire da ciò che siamo oggi, un Paese difficile da capire e complicato, dalle deboli istituzioni, con deficit vecchi e problemi nuovi. Procedere con gradualità, metodo che appare smentito dall’urgenza: ripristinare una situazione violentata dal coronavirus, e già precaria in partenza, o gettare il cuore oltre l’ostacolo per una rinascita vera e propria?

La stagione della fiducia e dello scatto creativo di allora, per quanto obbligata perché peggio non poteva andare, si contrappone all’attuale età del disincanto e dello smarrimento. Il dopoguerra di un’Italia ancora contadina, distrutta e alla fame, ha allevato il Paese del miracolo economico, dell’Oscar della lira e di un benessere relativamente diffuso. Sotto l’ombrello dell’America s’era creato un orizzonte di crescita che ha trascinato il mondo occidentale, facendo dell’Italia una potenza industriale e una consolidata democrazia occidentale.

Il Segretario di Stato George Marshall annunciò il suo Piano nel ’47 all’Università di Harvard, mentre oggi l’America è governata dai tweet di Trump, l’unico inquilino della Casa Bianca che deve difendersi dall’accusa di essere un incompetente. Quella democrazia – lenta, farraginosa, eppure garantista per definizione – che oggi non a tutti piace: il vezzo di chi si ritiene autosufficiente. Una classe politica, la cui tempra politica si risolveva nella dedizione alla causa. Personalità diversissime, divise da insanabili fratture ideologiche, tuttavia unite dall’aver combattuto una guerra vera contro un comune nemico. La Resistenza aveva creato un tessuto connettivo che, nonostante tutto, ha consentito di contenere le grandi tensioni sociali dell’epoca, pagate peraltro dai ceti popolari e operai. Dirigenti sulla soglia della miseria, ma colti e preparati. Il democristiano De Gasperi va in America a chiedere finanziamenti con il cappotto «rivoltato» perché non aveva i soldi per acquistarne uno, il socialista Pertini in esilio campava facendo il muratore. Per uomini di questo genere la democrazia era una conquista, non un’eredità. Scelte di campo che definivano identità, avversari da contrastare, perimetri culturali da edificare. Era un’Italia che dal basso saliva verso l’alto, percorso opposto a quello attuale.

Siamo entrati nella pandemia con un quadro clinico da stagnazione permanente, con povertà crescente e disuguaglianze diffuse, e ne usciamo con uno choc psicologico non facile da assorbire e una spallata economica terribile: con un indebitamento pubblico che arriverà al 160% del Pil davvero saremo padroni a casa nostra? La fase 2 resta da inventare anche sul piano degli stili esistenziali: ci erano stati insegnati per una vita lo stare insieme, gli affetti multipli e adesso invece, dopo essere finiti in clausura domiciliare, vaghiamo tristi nella «società della distanza», con dinamiche selettive che ridimensionano relazioni e vita di comunità.

Il concetto di libertà assume contorni inediti, riadattato ad una società che, con la mascherina, dovrà mettere a norma l’imprevedibile. Consapevoli di essere immersi in conseguenze di portata inaudita, di sapere sì chi eravamo ma non chi potremo essere, in che Paese vivremo, di quali ceti sociali faremo parte: un mistero da svelare.

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