Compromesso su Euro 7, realismo sull’Europa

MONDO. Se è vero che la politica è «l’arte del compromesso», il raggiungimento di una mediazione nell’agone politico quasi non dovrebbe fare notizia. Tuttavia, c’è almeno un ambito specifico, quello delle politiche per la transizione ecologica, in cui un compromesso può essere interpretato come una salutare novità.

È per questo motivo che ieri, da diverse capitali europee, c’è chi ha celebrato l’accordo raggiunto sul «regolamento Euro 7», pensato per imporre a tutti i veicoli - a due e a quattro ruote - ulteriori requisiti a partire da quelli sulle emissioni di CO2. In sintesi, i nuovi vincoli sono stati resi meno restrittivi (già le regole «Euro 6» e lo stop ai motori a combustione dal 2035 sono target impegnativi) e la loro applicazione è stata dilazionata nel tempo.

Nel Consiglio Competitività, infatti, sono stati accolti i rilievi di un gruppo di Paesi – Italia e Francia comprese – il cui obiettivo principale era quello di concedere più tempo alle aziende del settore automotive per portare a termine la transizione green in cui sono impegnate, senza cambiamenti aggiuntivi che potrebbero avere un impatto negativo su redditività e occupazione.

«Recepite le proposte concrete del nostro Paese che conciliano tutela dell’ambiente e salvaguardia delle produzioni europee, senza regali a Paesi leader dell’elettrico come la Cina», è stato il commento del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Salvini. Per il ministro dell’Ambiente Pichetto, «un’Europa che guardi agli obiettivi “green” facendo prevalere il realismo sull’ideologia è possibile e oggi ne abbiamo avuto una dimostrazione». E al «necessario bilanciamento di economia ed ecologia» ha fatto riferimento anche Parigi.

Il compromesso raggiunto ieri a Bruxelles, d’altronde, non è l’unico del genere a essere stato concepito nelle ultime settimane. La sera prima, in un’intervista a tutto campo, il presidente francese Macron aveva rilanciato gli investimenti «green» di Parigi, ma allo stesso tempo aveva detto di non voler più mettere al bando le caldaie a gas. Il riferimento è a una misura forse minuta ma sicuramente avversata da gran parte dell’opinione pubblica, specie nelle aree rurali del Paese, divenuta simbolo dei costi di una transizione che finiscono per gravare soprattutto sui meno abbienti. Anche la Germania, a inizio mese, ha fatto marcia indietro sulla rottamazione delle caldaie a gas dal gennaio 2024, ha concesso più tempo alle famiglie per l’efficientamento energetico delle abitazioni, ha garantito sussidi e deroghe per le fasce più deboli della popolazione, con tanto di mea culpa dei Verdi che sono nella coalizione di governo. Sempre ieri, durante la sua missione a Pechino, il commissario Ue al Commercio Dombrovskis ha ribadito che l’esecutivo comunitario «ha recentemente annunciato l’avvio di un’indagine anti-sovvenzioni sull’import di veicoli elettrici a batteria provenienti dalla Cina».

Indossando le lenti della «politique politicienne», si potrebbe sostenere che i leader europei stiano tentando di intercettare in anticipo l’atteso cambiamento degli equilibri politici della prossima legislatura (e della prossima Commissione) a livello Ue. Ma sarebbe una lettura riduttiva, visto che lo scorso 20 settembre anche il premier conservatore inglese Sunak – al di fuori dell’Ue - ha rinviato sia l’obbligo di sostituire le caldaie a gas sia la messa al bando delle auto con motore a scoppio, sottolineando la necessità di «un nuovo approccio pragmatico e meno ideologico».

Il punto, più realisticamente, è che in tutto l’Occidente torna a farsi sentire l’esigenza di far coesistere riduzione delle emissioni nocive e rafforzamento della crescita economica, senza abbandonare gli obiettivi green ma superando un metodo troppo dirigistico e poco attento alla sostenibilità sociale.

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