Compromesso in Ucraina: va fermata la follia

Novità importanti, avevano annunciato ieri i portavoce del Cremlino. Ma il discorso di Vladimir Putin nel grande stadio di Luzhniki, che nel 2018 ospitava la finale del campionato mondiale di calcio, è stato solo la replica dei discorsi che sentiamo da almeno un mese, l’elenco delle ragioni (o delle scuse) che hanno portato all’invasione dell’Ucraina: il genocidio imminente nel Donbass, la necessità di denazificare il Paese, il problema del disarmo. La citazione del Vangelo («Non c’è amore più grande che dare la propria vita per i propri amici», Giovanni, capitolo 15, versetto 13) e l’interruzione finale della diretta tv (forse un problema tecnico, forse un attacco hacker) non hanno salvato una stanca ripetizione della propaganda di guerra.

A ben vedere, però, una novità c’è stata: l’apparato. La folla in marcia, le bandiere, gli inni, il discorso del capo… Un’iconografia di stampo sovietico che ben rappresenta l’esigenza di tenere coesa un’opinione pubblica che conserva un sentimento fortemente patriottico ma è tutt’altro che impermeabile alle notizie dal fronte e ai timori di una crisi economica da sanzioni che incombe come una nuvola carica di tempesta sulla testa dei russi.

Il fronte, si diceva. Ieri Oleksy Arestovic, portavoce del presidente ucraino Zelensky, ha diffuso un drammatico video in cui, dopo aver commentato che qualcuno doveva pur dare anche le brutte notizie e che farlo toccava a lui, ha detto che l’esercito ucraino, già impegnato in una dura battaglia nell’area di Volnovakha (città conquistata qualche giorno fa dai russi), non aveva truppe sufficienti per provare a spezzare l’accerchiamento di Mariupol’. Il che vuol dire che i difensori del grande porto ucraino sono lasciati a se stessi, e che prima o poi la città sarà perduta. Possiamo fornire all’Ucraina tutte le armi del mondo ma occorreranno sempre uomini pronti a imbracciarle. E come dice Arestovic, la resistenza degli ucraini comincia a pagare il prezzo dell’eroismo.

Stessa cosa per le fandonie sulla guerra-lampo fallita dei russi. Nella storia militare della Russia non c’è traccia di guerre-lampo o spedizioni punitive, non è così che combattono i russi. E da ciò che si vede sul campo, si dovrebbe ormai capire che il vero obiettivo di Mosca non è conquistare Kiev ma annichilire l’Ucraina, renderla impotente conquistando o radendo al suolo le infrastrutture essenziali, dai porti alle industrie pesanti, dalle miniere alle centrali nucleari, dai grandi hub ferroviari agli aeroporti. Proprio per questo, oltre che per le evidenti e sempre più pressanti ragioni umanitarie, è assolutamente necessario fermare questa follia. Senza un compromesso che blocchi le opposte intransigenze, ci sono solo due sbocchi. Da un lato, come appena detto, la trasformazione dell’Ucraina (o di quel che resterà fuori dal controllo dei russi) in una terra bruciata ai confini con l’Europa, con milioni di profughi sradicati dalla violenza (già 65 mila in Italia) che difficilmente e giustamente, poi, vorranno tornare in quello che già prima della guerra era uno dei Paesi più poveri d’Europa. Dall’altro, il collasso della Russia sotto il peso delle sanzioni, dello sforzo bellico, delle contestazioni interne e magari di una spaccatura nel sistema putiniano di potere. Molti se lo augurano ma non è una prospettiva consolante, quella di ritrovarsi in pezzi il più grande deposito mondiale di risorse naturali e armi atomiche.

La Santa Sede si è detta disponibile a una mediazione per la pace, ma c’è troppa ferocia in giro per un’autorità morale, anche se è quella di Papa Francesco. E poi c’è il mondo ortodosso che, a Mosca come a Kiev, ha indossato l’elmetto. Ci hanno provato Israele e la Turchia, ma hanno poco da offrire o da minacciare ai due Paesi in guerra. Tocca agli Usa e alla Cina. Che magari non possono dare lezioni di pacifismo e di etica, ma in compenso hanno molto da offrire. Rassicurazioni Usa all’Ucraina, commerci cinesi alla Russia. Per ora, sembrano il gancio più solido per la residua speranza in una soluzione negoziata.

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