Comunità accoglienti e una pena giusta per un Paese più sicuro

ITALIA. Nella visita di martedì 15 aprile al carcere di via Gleno il Vescovo Francesco Beschi ha ricordato l’importanza di una comunità accogliente che, fuori dalle mura della galera, renda possibile un futuro per chi sta scontando la sua pena.

In un momento difficile per la Casa circondariale, che come tutti gli istituti di pena del Paese soffre condizioni di sovraffollamento ai limiti del sopportabile (583 detenuti, per una capienza regolamentare di 319), la presenza di monsignor Beschi per gli auguri pasquali ricorda alla cittadella di via Gleno (abitata non solo da detenuti ma anche da agenti di polizia penitenziaria, operatori sanitari, educatori, insegnanti, volontari), che fuori c’è una città che storicamente è sempre stata in prima linea per raccogliere la sfida di un disagio che, va detto, negli ultimi anni si è fatto particolarmente complesso nella presa in carico.

E ci ricorda anche che il carcere ci riguarda tutti. Non è una questione di buonismo. Facile, in questi giorni di vicende di cronaca anche drammatiche che sollevano seri interrogativi sull’efficacia delle misure cautelari, alzare il vessillo della certezza della pena.

La certezza di una pena giusta

Ma il problema parte proprio dalla certezza di una pena giusta. Partiamo da un dato inoppugnabile: non solo assicurare una pena umana e con finalità rieducative è un compito costituzionale, sancito dall’articolo 27 (proprio quest’anno tra l’altro il nostro ordinamento penitenziario compie 50 anni, un gran bel testo normativo, con molte pagine rimaste purtroppo solo nella mente del legislatore), ma, come ricordò la ministra Marta Cartabia nel 2021 in una comunicazione al Senato, «perseguire lo scopo rieducativo della pena è anche il modo più effettivo ed efficace per prevenire la recidiva e, quindi, in ultima analisi, per irrobustire la sicurezza della vita sociale». Vale a dire: se il detenuto sconta la sua pena, ed essa lo aiuta ad acquisire consapevolezza dei suoi errori e a riagganciare un legame con il consorzio umano, una volta fuori le probabilità che torni a delinquere sono molto minori rispetto a un suo simile che sconti la pena in celle sovraffollate, senza possibilità di lavorare, studiare o avere contatti che lo aiutino nell’attività di recupero. Parliamo di un tasso di recidiva che scende dal 70% (quindi quasi una certezza) al 2 per cento in chi ha già avuto un contratto di lavoro durante la detenzione.

Se il detenuto sconta la sua pena, ed essa lo aiuta ad acquisire consapevolezza dei suoi errori e a riagganciare un legame con il consorzio umano, una volta fuori le probabilità che torni a delinquere sono molto minori rispetto a un suo simile che sconti la pena in celle sovraffollate, senza possibilità di lavorare

Purtroppo, le condizioni attuali delle carceri fanno sì che sia molto difficile assicurare attività rieducative a tutti i detenuti, a causa di una spaventosa situazione di sovraffollamento, che mette a dura prova la rete di sostegno dell’esecuzione penale che, in realtà come la nostra, è ancora molto articolata e vivace (basta pensare che i soggetti in esecuzione penale esterna a Bergamo sono oltre 2.500).

Il nodo del decreto sicurezza

Ma l’aspetto più preoccupante è che nonostante i ripetuti appelli non si coglie un segnale di presa di coscienza da parte del governo, che persegue fin dal suo insediamento una politica di inasprimento delle pene che prevedono il carcere e rifiuta decisamente qualsiasi ipotesi deflattiva della popolazione detenuta. Anzi, tutti i provvedimenti sono stati di segno opposto, l’ultimo in ordine di tempo il decreto sicurezza. In questo dispositivo, mitigato da alcuni correttivi richiesti dal Presidente della Repubblica, si reintroduce la facoltà di carcerare donne in stato di gravidanza o madri con bambini sotto i 3 anni (modificando la norma che obbligava al rinvio della esecuzione della pena) e si configura come reato anche la resistenza passiva dei detenuti in carcere, una forma di contestazione non violenta che in situazioni di tensione, ormai purtroppo all’ordine del giorno nei nostri istituti, è spesso l’unica forma «civile» per esercitare diritti in contesti di promiscuità tale per cui risulta difficile anche solo restare umani.

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