Conte, leader travicello di un esercito allo sbando dopo il crollo elettorale

Mario Draghi si è dimesso ma il paradosso è che il suo governo – che ha la fiducia sia della Camera sia del Senato (a Palazzo Madama 172 voti favorevoli, largamente al di sopra della maggioranza assoluta) – è in crisi perché quel che resta del partito di maggioranza relativa si è convinto che può salvarsi dalla rovina solo abbandonando Draghi.

Quindi quella che si è aperta è una crisi «extra-parlamentare», con un governo che non avrebbe avuto alcun motivo istituzionale per dimettersi. Il problema è politico e risiede nella dissoluzione del M5S, giunto ormai alla fase finale della sua breve vita. Gli spaventevoli numeri delle elezioni amministrative che hanno mostrato un movimento totalmente assente in tutto il Nord e appena in vita nel Centro-Sud hanno gettato nel panico i deputati e i senatori che si sono visti perduti, cioè senza alcuna speranza di tornare a Montecitorio e a Palazzo Madama. Dunque l’uscita dal governo prelude ad una nuova stagione del «vaffa», con occupazione dell’aula, ostruzionismo, tentativi di tornare alla piazza (che non c’è più) con vecchi cavalli di battaglia: lotta alla casta, no a tutte le opere pubbliche, ecc. Giuseppe Conte, leader travicello di questo esercito allo sbando per rimanere a cavallo ha finito per seguire la rivolta uscendo dalla sua tradizionale tattica dei penultimatum, del dito alzato ad ammonimento cui segue una rapida quanto soddisfatta giravolta. Lo ha fatto, l’ex premier, perché vuole anche lui sopravvivere politicamente ma anche perché non ha mai digerito di aver dovuto lasciare Palazzo Chigi e cedere il posto a Mario Draghi con il quale la ruggine c’è stata sin dall’inizio.

Il capo del Governo, da tempo sempre più tentato di mollare la politica italiana al suo destino, è trattenuto a forza da Mattarella. La ragione del capo dello Stato sta esattamente in tutto quello che i grillini ignorano o snobbano: la crisi internazionale, la guerra, l’autunno economico da affrontare, i costi dell’energia, lo spread, e anche la siccità, insomma uno dei momenti più difficili che l’Europa vive dalla fine della seconda guerra mondiale. Tutte cose che non risuonano nelle dichiarazioni dei grillini ma che sono invece in cima alle preoccupazioni del presidente della Repubblica. Votare a sei mesi dalla fine della legislatura di per sé non sarebbe una tragedia se non ci fosse la crisi che c’è. Per la quale naturalmente serve chiarezza: non a caso Draghi ha rifiutato l’escamotage inventato dal grillino d’Incà, ministro dei Rapporti col Parlamento, che gli aveva proposto di ritirare la questione di fiducia e far votare il decreto Aiuti articolo per articolo così da consentire ai senatori grillini di dire sì o no a piacimento. Ma Draghi ha risposto: voglio il voto di fiducia, ognuno si assuma la sua responsabilità. E così è stato: 172 sì, senza i grillini di Conte, e 39 no dall’opposizione di destra. Insomma, ci sarebbero tutti i numeri di un Draghi-bis con la sostituzione dei ministri e sottosegretari del M5S con altri esponenti della maggioranza (per esempio i sessanta che hanno seguito Di Maio e che potrebbero anche aumentare). Tutto è nelle mani di Mattarella e di Draghi: i partiti guardano alle loro scelte, ognuno con le proprie preoccupazioni e le speranze per la prossima legislatura. L’Italia aspetta mentre lo spread schizza verso l’alto e la Borsa di Milano sprofonda.

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