Contro il virus
oltre il dovere

«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» è la nota citazione dell’opera teatrale di Bertolt Brecht «Vita di Galileo». Sta a significare che un Paese non dovrebbe avere necessità di persone eccezionali per risolvere i problemi. L’eroe moderno è colui che, di propria iniziativa e libero da qualsiasi vincolo, compie un atto di coraggio straordinario e generoso, che possa comportare il consapevole sacrificio di sé, per proteggere il bene altrui o comune. Il termine è ormai abusato: talvolta basta fare semplicemente il proprio dovere per essere ammantati di virtù eroiche.

Sta accadendo anche in questi giorni, nell’Italia scossa dall’epidemia di coronavirus. Domenica scorsa, di sera, è finalmente sceso a terra Gennaro Arma, il capitano della «Diamond Princess», la nave da crociera rimasta in quarantena in Giappone dal 5 febbraio con 3.711 passeggeri: il tragico bilancio finale è di 705 persone contagiate dal Covid-19 e 5 morti.

Il capitano è sbarcato per ultimo, come vogliono le leggi del mare e i codici della navigazione, dopo che anche i 130 membri dell’equipaggio erano sulla banchina. «Un eroe» per la stampa di tutto il mondo. «L’anti-Schettino» per gli italiani. Il capitano ha ridimensionato questi giudizi dicendo che «ho fatto solo il mio dovere». In realtà ha fatto qualcosa di più: non ha solo governato la grande nave, ma si è occupato dell’evolversi del virus, ha ascoltato le paure dei turisti e organizzato momenti imprevisti d’intrattenimento, cantando pure. Un tipo umano certo non comune.

Nell’elenco degli eroi che combattono il coronavirus è stato annoverato anche Stefano Paglia, direttore del Pronto soccorso di Lodi e Codogno, che vive sul luogo di lavoro e dal 20 febbraio vede sua moglie e le due figlie solo via WhatsApp. A Milano invece un giovane lascia nella buca delle lettere degli anziani un biglietto con scritto «Se avete bisogno di aiuto chiamatemi» e il numero di cellulare.

Anche nella Bergamasca ci sono centinaia di persone impegnate contro il coronavirus, senza badare a orari, turni e rischi: medici, infermieri, volontari, uomini della Protezione civile e delle forze dell’ordine. Tra chi lavora in ospedale c’è chi è stato contagiato dal virus che contrasta nei pazienti. Si tratta di uomini e donne che agiscono con competenza, professionalità, generosità e capacità di vera cura. Mossi dall’emergenza, fanno più del dovuto. Se interpellati, probabilmente risponderebbero che stanno facendo solo il loro dovere. Ma invece c’è un di più nel non tirarsi indietro, nel non adagiarsi su chi fa meno. Ci sono professioni, come quelle mediche e infermieristiche, per le quali l’emergenza è l’ordinarietà. Ma il coronavirus, ignoto e invasivo, è una sfida nuova. Lo è per tutti noi: ha cambiato le nostre abitudini di vita, e lo è ancora di più per chi deve curare i contagiati in un sistema sanitario sotto pressione come non mai.

Umilmente dissentiamo dall’editorialista del Corriere della Sera, Beppe Severgnini, secondo il quale «l’eroismo al tempo del virus è fare il proprio mestiere». Fare il proprio mestiere è un atto dovuto, in sé. Lo scrittore francese Charles Peguy nel 1914 ci ha lasciato queste parole: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano.

Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io - io ormai così imbastardito - a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto». Centinaia di persone nella nostra provincia stanno lavorando così contro il coronavirus, senza secondi fini. Gli dobbiamo riconoscenza. Chiamateli eroi se volete. Ma soprattutto sono la faccia migliore di un’Italia nascosta che nell’emergenza sa dare il meglio di sè, facendo più del proprio dovere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA