Coronavirus in carcere
Nel sovraffollamento
un’altra dura prova

Secondo magistrati di vaglia e politici, le carceri non avrebbero rappresentato luoghi di trasmissione del Covid, essendo chiuse all’esterno. Previsione superficiale e quindi sbagliata: gli istituti di pena sono infatti frequentati da persone non residenti, come agenti, educatori, volontari, parenti dei detenuti in visita e personale amministrativo. Così ad oggi sono duemila i positivi, equamente ripartiti tra detenuti (anche chi è in isolamento al regime 41 bis) e operatori, nei quasi 200 istituti italiani. La percentuale dei contagiati è dell’1,67, mentre fuori è dell’1,31. Tra i positivi anche due bambini di pochi anni: sì, perché nei nostri penitenziari ci sono pure 33 piccoli, figli di detenute. Gli istituti di pena non sono nemmeno i luoghi idonei per trascorrere una convalescenza complessa.

Nel 35%, infatti, non c’è acqua calda e il 7,1% non dispone di riscaldamento funzionante. Inoltre il 18,8% ha celle dove non si rispetta il parametro dei tre metri quadri per persona (soglia minima secondo la Corte di giustizia di Strasburgo, che ha già condannato l’Italia per violazione della norma) mentre il 54% non dispone neppure della doccia.

La Casa circondariale di Bergamo dal punto di vista delle dotazioni, del personale e della gestione non fa testo, anche se il virus si è insinuato anche qui. Ma ci sono istituti in uno stato di degrado tale da rendere la detenzione disumana e criminogena, contravvenendo all’articolo 27 della Costituzione per il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Le carceri sono un luogo fertile per l’attecchimento del Covid, contravvenendo a uno dei cardini comportamentali della prevenzione, il divieto d’assembramento: ad oggi la popolazione è di 54 mila 815 persone (il 35% tossicodipendenti) rispetto ad una capienza virtuale massima di 50 mila 552 (secondo una legge dello Stato che lo Stato vìola da decenni) ai quali vanno sottratti 3.447 posti non disponibili, con una percentuale di affollamento del 116,37% (a Bergamo ci sono circa 500 detenuti, 38 donne, per 330 posti). In un’intervista, il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini, ha rivendicato al governo il merito di aver liberato 9 mila persone con pena da scontare bassa. In realtà sono 7 mila e buona parte del crollo del numero dei detenuti, secondo uno studio del Consiglio d’Europa, è dovuto alla decrescita dei reati per il lockdown e alla sospensione dei processi. In chiave anti virus il governo aveva previsto anche un provvedimento che avrebbe concesso la detenzione domiciliare a 3.359 persone autrici di reati minori, ma 1.100 restano in cella non avendo un’abitazione.

L’emergenza Covid avrebbe potuto rappresentare l’occasione per un’amnistia o un indulto per una parte dei 54 mila carcerati, quelli con pene lievi e meritevoli del provvedimento, come chiesto da alcune associazioni, ma Verini ha risposto che ad oggi non ci sono le condizioni politiche (ovvio).

Potrebbe almeno essere l’opportunità per rivedere l’ordinamento penitenziario e giudiziario. Ci sono due dati da mandare a memoria: il 70% delle persone che scontano tutta la condanna in cella, una volta in libertà torna a commettere reati, percentuale che scende al 20% per chi gode di pene alternative: l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Fondamentale per il percorso rieducativo è anche il lavoro, esterno o interno alle carceri (ma nel 20% non ci sono spazi per permetterlo). Quali delle due opzioni è più vantaggiosa per la società?

E la sofferenza delle vittime dei reati, si chiederà? C’è ed è enorme: ma davvero pensiamo che sommare dolore a dolore produca esiti positivi? È la vendetta la soluzione?

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