Costituzione antifascista, fondamento dell’Italia

POLITICA. «L’antifascismo non è in Costituzione», spiega a un giornalista alla buvette di Palazzo Madama il presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, di professione avvocato.

L’antifascismo non è in Costituzione? A parte il fatto che l’articolo XII delle Disposizioni transitorie e finali recita testualmente «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», tutta la Carta, nata dopo la Liberazione dal nazifascismo, è impregnata di antifascismo. Soprattutto per quel che riguarda gli «anticorpi» giuridici tesi a evitare il ritorno del totalitarismo di casa nostra maturato durante il Ventennio. Ogni Stato ha i suoi, di totalitarismi, e a noi è toccato il fascismo, non ne abbiamo avuti altri nella nostra storia recente e passata, avendo sconfitto - grazie ai medesimi anticorpi democratici - il terrorismo leninista delle Brigate rosse. L’antifascismo infatti è stato il prezzo della nostra libertà. Prendiamo gli articoli 13, 14 e 15, che disciplinano le libertà individuali (personale, domiciliare, di corrispondenza). I padri costituenti della sottocommissione dei 18 sui «diritti e doveri dei cittadini» (tra questi Giuseppe Dossetti, Palmiro Togliatti, Nilde Iotti, Aldo Moro, Concetto Marchesi e Giorgio La Pira) furono attentissimi a limitare ogni prevaricazione sul cosiddetto «habeas corpus», la detenzione di un cittadino, di un uomo, nelle mani dell’autorità, oltre che affidare ai giudici la gestione dei sequestri, delle perquisizioni e la lettura della posta, con riserve di legge rinforzate. Avevano davanti agli occhi l’orrore delle squadracce dell’Ovra, per non parlare dei repubblichini di Salò. Alcuni di loro lo avevano vissuto sulla propria pelle.

Eppure, 78 anni dopo, a parte le esternazioni del presidente La Russa, si assiste alla messa in discussione del 25 Aprile. La memoria rancorosa della destra ci riporta alla casella iniziale, mettendo in dubbio i fondamentali: la Costituzione nata dalla Resistenza, nel tentativo di mettere sullo stesso piano vincitori e vinti. Si tratta di una tradizione tipicamente italiana, come ricorda la storica dell’Università di Tor Vergata Michela Ponzani in «Processo alla resistenza» (Einaudi) da qualche giorno in libreria. «Chi conosce un po’ di storia della Repubblica sa che non è una novità», scrive l’autrice, «il coro di chi ama avvelenare i pozzi aveva preso corpo con l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini e Il Tempo di Renato Angiolillo per poi proseguire con neofascisti rancorosi fuori e dentro il Parlamento». La nostra, prosegue la studiosa, «è un’Italia perennemente alla ricerca di radici identitarie, impegnata a rincorrere la pacificazione fra “vincitori e vinti” (specialmente dopo il crollo della cosiddetta Prima Repubblica, all’inizio degli anni Novanta), il 25 Aprile non poteva che essere liquidato come una festa fratricida o divisiva». Un eterno derby tra destra e sinistra, come se la Resistenza tra l’altro non fosse opera anche di azionisti, monarchici, cattolici, e non solo delle Brigate Garibaldi di matrice comunista. La storia patria è piena di parroci che durante l’oppressione fascista creavano imponenti reti clandestine per nascondere gli ebrei, proteggere e supportare i partigiani. L’ordine di insurrezione, il 25 Aprile, arrivò da una radio partigiana clandestina gestita dal parroco don Eugenio Bertolotti sistemata nella soffitta di una chiesa di Busto Arsizio, in provincia di Varese. Identificare la Resistenza con la sinistra è un’operazione ideologica falsa storicamente, oltre che puerile.

E a proposito che senso ha, come ha annunciato il presidente del Senato, recarsi all’Altare della Patria con Mattarella il 25 Aprile e poi volare alla volta di Praga per commemorare lo stesso giorno Ian Palach, il giovane studente che si diede fuoco per protestare contro il regime comunista sovietico? Che senso ha, se non quello di mettere sullo stesso piano due eventi storici indebolendone l’unicità dell’uno rispetto all’altro, ricorrendo al solito benaltrismo storico, come si fa con le foibe quando si celebra la Giornata della memoria della Shoah? Nessuno si è mai sognato di andare a commemorare la strage di via Fani il 12 dicembre, giorno della strage di piazza Fontana, non solo per una questione di date.

Eppure Gianfranco Fini, nel 2003, in visita al Museo del ricordo delle vittime dell’Olocausto Yad Vashem aveva definito il fascismo «male assoluto», avviando in questa sede un percorso politico che doveva portare a una destra nuova, libera come una fenice dal postfascismo. Macché. Su certi temi l’Italia della memoria condivisa gira in folle. Si continua a scambiare la «pacificazione» con la «parificazione», mettendo sullo stesso piano i partigiani e i ragazzi di Salò, come se i secondi - pur nella doverosa pietà per dei giovani mandati a morire e nella condanna di efferatezze che avvenivano da una parte e dall’altra - non avessero combattuto dalla parte sbagliata. Una direttrice che avrebbe portato l’Europa e forse il mondo a un impero ariano basato su un’immensa popolazione di schiavi iloti, come voleva Hitler. Come è possibile voltare pagina in queste condizioni se il Paese continua a contestare la storia, a rimettere in discussione la stagione della lotta di liberazione, creando un vero e proprio «corto circuito» della memoria nazionale? Eppure è così; l’anti-antifascismo è duro a morire.

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