Curare gli anziani fa bene anche a noi

SOCIETÀ. «Agosto, nonno mio non ti conosco». Nemmeno parafrasando l’umorismo surreale di Achille Campanile nel celebre romanzo degli Anni Trenta sugli amori estivi e l’aspirazione dei mariti a «scordarsi» delle mogli, si riuscirebbe a strappare un sorriso sulle «vacanze» che più di un anziano trascorrerà nelle prossime settimane in casa di riposo per consentire ai propri familiari di andare in ferie, loro sì quelle vere.

Li chiamano «ricoveri di sollievo», senza stare troppo a specificare che il «ristoro» è riservato a chi va e non a chi resta, che di benefici - sradicato dalla sera alla mattina dalla propria quotidianità - ne avrà ben pochi. Tutto legittimo, certo, soprattutto per quelle famiglie che davvero si fanno carico tutto l’anno di assistere tra le mura domestiche un familiare anziano e molto spesso malato, e che dunque hanno il sacrosanto diritto, persino il dovere, di «staccare» per almeno un paio di settimane. Ma a chi fa di questo impegno un’opera di carità e di restituzione del bene ricevuto dai propri genitori, educando nel contempo i figli al rispetto e alla cura della figura dell’anziano nel suo complesso, si affiancano purtroppo in misura sempre più consistente coloro che considerano esclusivamente le Rsa un comodo «parcheggio» dove lasciare «il mammut» - come dice la nuora all’amica sulla spiaggia mentre il marito è al telefono con la madre qualche passo più in là - per andare in vacanza senza troppi grattacapi. Basta contattare qualche istituto per trovare più di una conferma.

Nonostante la scienza abbia consegnato all’uomo moderno una serie di «elisir» per cercare di allungare la vita all’infinito, troppo spesso - nei lunghi anni della vecchiaia, sempre più lunghi - malattia, solitudine e «male di vivere» continuano ad andare di pari passo. È cambiata l’assistenza, ovviamente in meglio, ma è andata via via peggiorando la considerazione che la società ha dei «vecchi», tanto da spingere Papa Francesco, pochi giorni fa, a lanciare un monito perché «le nostre città affollate non diventino “concentrati di solitudine”: non succeda che la politica, chiamata a provvedere ai bisogni dei più fragili, si dimentichi proprio degli anziani, lasciando che il mercato li releghi a “scarti improduttivi”. Non accada che, per inseguire a tutta velocità i miti dell’efficienza e della prestazione, diventiamo incapaci di rallentare per accompagnare chi fatica a tenere il passo. Mescoliamoci e cresciamo insieme». Perché i nonni - dice Francesco - sono «alberi rigogliosi sotto cui figli e nipoti realizzano i propri nidi, imparano il clima di casa e provano la tenerezza di un abbraccio». E poi l’invito ai giovani che domani partiranno alla volta di Lisbona per partecipare alla Giornata mondiale della Gioventù: «Prima di mettervi in viaggio andate a trovare i vostri nonni o un anziano solo. La sua preghiera vi proteggerà e porterete nel cuore la benedizione di quell’incontro».

Al di là di ogni considerazione etica, è chiaro da tempo che il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione italiana sia giunto a livelli tali per cui mettere in pratica una seria azione strategica è ormai irrinunciabile, di certo non basata sul favorire l’eutanasia o il suicidio assistito. O introducendo surrettiziamente una serie di discriminazioni ai danni del morente e di chi è più fragi le, aggettivo che sempre più spesso si accompagna alla parola «anziano». E la fragilità non è un concetto «monolitico», ma ha forme e gradazioni diverse, che richiedono un approccio multidisciplinare all’interno dell’intero sistema socio-sanitario.

Da uno studio di «Italia Longeva» sulle fragilità nel nostro Paese emerge che l’offerta di assistenza, in particolare quella domiciliare, è andata sì aumentando tra il 2017 e il 2020, ma in misura inferiore rispetto all’incremento di chi è affetto da fragilità grave, condizione che presto dilagherà se al tasso di crescita della popolazione anziana continuerà ad affiancarsi in parallelo un tasso di natalità in continuo declino. All’inizio di quest’anno, le stime indicavano c he in Italia, su una popolazione di circa 58 milioni e 852mila unità, c’erano 28 milioni di persone con più di 50 anni di età, di cui oltre la metà superava i 65 anni e il 3% i 90 anni.

E l’aumento prospettato nel prossimo futuro è ancor più rilevante, con tutte le conseguenze del caso. Senza contare che la «povertà invisibile» continua a strisciare soprattutto tra la popolazione anziana, che spende più del 60% del proprio reddito solo per curarsi e per mangiare. E dire che, per definizione, l’anziano è da sempre considerato un soggetto debole, che assorbe risorse dalla società. Tuttavia, già tempo fa, un’indagine del Censis aveva mostrato come la condizione anziana sia tutt’altro che spenta e passiva, e che di fatto il sentirsi anziano non coincida con il superamento di una soglia anagrafica, quanto piuttosto con l’imbattersi in circostanze particolari, quali il ricovero in una casa di riposo o l’essere debilitato fisicamente: entrare in un “ricovero” cambia radicalmente il proprio contesto di vita e i riferimenti relazionali, mentre un handicap fisico modifica la percezione di sé e il proprio livello di indipendenza. Sappiamo che trascorreremo un terzo della nostra vita nella 3ª e nella 4ª età, ma non conosciamo come impiegheremo questi anni. Sarebbe utile - invitano gli esperti – iniziare a pensare da «ultrasessantenni» ancor prima di esserlo. E allora uno dei compiti della società potrebbe essere quello di educare alla vecchiaia durante la vita attiva. È importante che ciascuno di noi consideri l’anziano un soggetto vivo e vitale, non trascurando le sue potenzialità, la sua voglia di vivere e di fare. Il fattore umano resta evidentemente il più importante: impostare strategie per la popolazione anziana significa anche sensibilizzare la comunità sull’importanza del problema, promuovere e rilanciare la solidarietà tra le generazioni, stimolare una vera riflessione sul valore degli anziani, maturato in anni e anni di esperienza. Una delle poche cose che, anche pagando, non si può avere dall’oggi al domani.

E, infine, diamo uno sguardo alla fotografia qui sopra: siamo così sicuri che a sentirsi felice debba essere solo chi la mano se la sente stringere e non anche (o soprattutto) chi la sta stringendo? Vale la pena pensarci, anche sotto l’ombrellone.

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