Dal fisco percepito
al declino industriale

La legge di Bilancio è lo strumento contabile con cui il governo indica le entrate e le uscite previste per l’anno successivo. Detto in soldoni, è l’avviso ai cittadini dei benefici e, purtroppo, sempre più spesso dei sacrifici che devono aspettarsi per l’anno entrante. Nel pieno della burrasca scatenata dal pericolo di naufragio dell’Ilva di Taranto, è iniziato in questi giorni l’esame in Parlamento – ma sarebbe meglio dire il tiro incrociato – della legge di Bilancio del governo Conte. Come sempre chi firma un tale documento deve aspettarsi che parta l’assalto alla diligenza da parte di associazioni di categoria e potentati vari, interessati a scongiurare aggravi d’imposta e a strappare qualche benevola elargizione. Finché l’assalto si svolge come lobbying, siamo nella normalità. Quando viceversa (è il caso della legge di bilancio Conte) suscita una reazione da tiro al bersaglio, si accende la luce rossa: pericolo bocciatura. Mai come quest’anno la Finanziaria ha registrato, infatti, un coro di critiche tanto veementi e soprattutto tanto trasversali da metterne in forse l’approvazione.

Eppure, il governo non avrebbe tutti i torti a rivendicare insieme la riduzione del cuneo fiscale di 3 miliardi e il blocco della clausola di salvaguardia sull’Iva di 23 miliardi, al cui confronto i 5/6 miliardi di nuove micro tasse sono ben poca cosa. Non valuta, però, due dati. Il primo: non tiene conto che un pericolo scongiurato non è, di per se stesso, motivo di grande apprezzamento da parte dei cittadini. In tempi di fisco asfissiante, l’evitare un pesante aggravio delle tasse viene considerato poco più che un adempimento dovuto. Bruciano invece i nuovi balzelli, soprattutto se considerati ingiustificati o addirittura molesti, dal momento che investono beni di consumo correnti, quali acqua, latte, bibite zuccherate, merendine. Secondo: è autolesionismo puro far balenare il proposito di colpire ogni giorno nuovi beni, salvo poi fare marcia indietro sui più. Il fisco percepito finisce per pesare più del fisco subìto. L’allarme rientrato dà il segno della debolezza dell’esecutivo. Convince l’opinione pubblica che il governo si muova alla cieca, che non abbia un’idea di futuro capace di far invertire la rotta ormai imboccata (vedi i drammatici casi Ilva, Alitalia, Whirlpool, solo per citare i più clamorosi) verso un inesorabile declino industriale. Avvalora l’accusa di non avere altro collante della paura di Salvini.

La maggioranza addebita il mancato apprezzamento dell’azione di governo a cattiva comunicazione. Sarà. Ma non la danneggia meno lo spettacolo offerto di divisione interna, di continua rincorsa degli alleati a rinfacciarsi l’un l’altro le manchevolezze e sacrifici richiesti. Il Pd cerca scampo minacciando i soci d’una crisi di governo. La sua rischia però di essere un’inutile fuga in avanti. Il pericolo di un ricorso alle urne può raffreddare i bollenti spiriti dei partner. Non aiuta, però, la maggioranza a superare i contrasti di fondo che la lacerano e che stanno condannando il Paese ad essere, quanto a crescita, la Cenerentola d’Europa (parola del New York Times). I contrasti sono pesanti: sulla deindustrializzazione, non adeguatamente combattuta in vista dell’auspicata quanto infausta decrescita felice. Sul sostegno alla povertà, condotto all’insegna del puro assistenzialismo di Stato, in barba ad ogni sforzo per avviare al lavoro disoccupati e inattivi. Sul finanziamento del Welfare (pensioni in particolare) tramite deficit, con tante grazie al macigno del crescente debito pubblico scaricato sulle spalle delle nuove generazioni, non a caso in fuga dal Bel Paese. Nessuna maggioranza può reggere a lungo se non scioglie questi nodi.

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