Dazi e prezzi, la realtà riporta la saggezza

MONDO. Dopo la parziale marcia indietro di Donald Trump sui dazi americani, per una volta da un po’ di tempo, si potrebbe essere cautamente ottimisti sul futuro degli equilibri economici e commerciali internazionali che tante ricadute hanno anche su di noi.

Passando di correzione di rotta in correzione di rotta, infatti, sembra che le economie occidentali si stiano avvicinando a un difficile equilibrio tra esigenze di mercato da una parte e necessità di tutelare il proprio tessuto industriale e sociale dall’altra.

Aver spalancato le porte a una serie di prodotti a basso costo da Paesi dove le industrie sono fortemente sussidiate dallo Stato e non devono rispettare vincoli sociali ed ambientali di sorta, come si è fatto a inizio secolo, non è stata una mossa saggia. Gli elettori, anche con il sostegno a partiti e leader anti-establishment, con il tempo hanno iniziato a mandare segnali di indubbia insofferenza, segnali che nelle democrazie vanno ascoltati e decifrati. Il problema è che la reazione uguale e contraria alla situazione precedente, cioè una politica di dazi su tutto quello che varca le frontiere, è anch’essa impraticabile e poco lungimirante. Per una volta la teoria economica è sempre stata unanime sul punto. Sono bastati alcuni mesi di eccessivo protezionismo per vedere tale teoria trasformarsi in pratica.

Da inizio anno, per esempio, gli Americani hanno subito a un aumento del prezzo del caffè di circa il 15%. Uno dei motivi è che il principale esportatore di caffè verso gli Stati Uniti, cioè il Brasile, si è visto imporre da Washington dazi del 50%. In assenza di una produzione domestica statunitense sufficiente, gli insostituibili produttori sudamericani per fare fronte alle tariffe hanno finito per rivalersi in parte proprio sui consumatori americani. Da qui l’inversione di rotta di Trump che, con un ordine esecutivo, ha ridotto i dazi su caffè, carne bovina, banane e decine di altri prodotti agricoli e alimentari. Sono durate poco, insomma, molte delle «tariffe reciproche» annunciate dalla Casa Bianca negli scorsi mesi ai danni di decine di Paesi in tutto il mondo, incluso il nostro.

Sull’Amministrazione repubblicana ha iniziato evidentemente a pesare la preoccupazione crescente degli Americani per il costo della vita. Finora, occorre ammetterlo, l’inflazione nella prima economia del pianeta non è esplosa come si temeva qualche mese fa, ma i segnali di tensione di prezzi su molti prodotti ci sono e sono evidenti. D’altronde un conto sono barriere o dazi mirati, sia per ragioni di sicurezza nazionale sia per tutelare specifiche filiere in una fase di complessa transizione (potrebbe valere per l’automotive europeo, se non fosse probabilmente troppo tardi), ben altro discorso sono balzelli generalizzati su ogni prodotto commerciato attraverso la frontiera. Lo stesso Trump, a chi gli chiedeva di questa decisione, ha ammesso che «i dazi in alcuni casi potrebbero far alzare i prezzi».

Con il senno di poi è sempre facile ritenere che la Casa Bianca avrebbe potuto ponderare meglio da subito le proprie decisioni. Vero. Ma adesso, tornando al cauto ottimismo di cui sopra, potremmo concludere che l’Amministrazione ha prima mandato un legittimo segnale al suo elettorato, poi assalita dalla realtà sta lentamente tornando su un sentiero di beneaugurante ragionevolezza.

Potremmo inoltre osservare che bene ha fatto l’Unione europea a non seguire la strada dell’escalation protezionistica anti-Usa, suggerita perfino da voci autorevoli, perché altrimenti oggi sarebbe più difficile per tutti in Occidente correggere la rotta e cancellare gli sgraditi effetti di inutili e dannosi eccessi ideologici.

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