Deficit di ascolto e lo spettro dell’astensionismo

Il commento. Le elezioni regionali sono un ibrido, né carne né pesce. Sono a metà tra voto politico e voto amministrativo. Voto politico, perché l’elettore fatica ad avere una conoscenza dei candidati e dei programmi che vada oltre l’immagine vista in televisione o la visione di un talk show. È portato quindi a compiere una scelta generica, di partito o di coalizione, incoraggiato in questo dalle forze politiche che sentono il vento in poppa.

Il premier Meloni ha addirittura parlato di referendum sulla sua persona. Le elezioni regionali sono, però, anche un voto amministrativo. Si tratta pur sempre di decidere sul governo di un territorio, da cui esulano i grandi temi nazionali: la guerra e la pace, la politica economica e quella fiscale.

Invece dei vantaggi, il presente voto regionale rischia di incamerare tutti gli inconvenienti di entrambi i tipi di voto. Spinge all’astensionismo. Esalta il ruolo degli apparati di partito. Questi, dopo aver scelto le candidature, sono determinanti anche nel governare le preferenze. Insomma, lungi dal mettere i cittadini nella condizione di esprimere un voto a ragion veduta, i partiti hanno fatto del loro meglio per imbrogliare le carte. O meglio, le hanno mescolate in modo da confondere le idee, facendo prevalere il loro calcolo politico sul merito della competizione. S’è già detto della Meloni. Del resto, tatticamente parlando, aveva tutte le ragioni per buttarla in politica. Si è ritrovata con le opposizioni, non solo incapaci di offrire un’alternativa di governo, ma pure in dura competizione tra loro. In aggiunta, è al momento l’unico politico in campo con un profilo da leader. Infine, ha la possibilità di oscurare i partner in modo che capiscano, con l’evidenza dei numeri, quali sono i rapporti di forza all’interno della coalizione.

Se nel caso di FdI è stata la rincorsa a un successo pieno a far oscurare la dimensione amministrativa del voto regionale, nel caso delle opposizioni è stato il contrario. Il Pd è da tempo in affanno per sventare una nuova umiliazione elettorale. Il M5S sta facendo della sua scontata esclusione da responsabilità di governo un’opportunità per cannibalizzare proprio il vantato alleato, il partito di Letta. Il Terzo polo si sta sbracciando per conquistare un ruolo protagonista in un’Italia giudicata malata di populismo. In definitiva, le opposizioni hanno conformato il loro comportamento più al voto europeo del prossimo anno che al voto odierno regionale. Ragion per cui, alleati e programmi sono stati decisi seguendo il criterio della loro congruità alla possibilità di successo l’anno prossimo. Il Pd e il M5S si sono presentati divisi dove (nel Lazio) avevano maggiori probabilità di successo e uniti dove (in Lombardia) ne avevano meno. Calenda e Renzi hanno cercato con la consueta abilità tattica di far leva sulle contraddizioni della ventilata alleanza rosso-gialla per evitare di finirne soffocati: alleati con il Pd nel Lazio, solitari in Lombardia. Tutto ciò non ha certo aiutato gli elettori a chiarirsi le idee. Poco o niente si è parlato di quanto fosse davvero pertinente al carattere amministrativo del voto. C’è da augurarsi che il senso civico e l’amore per la propria terra di lombardi e laziali suppliscano al deficit di ascolto e di dialogo dei partiti con gli elettori, di cui ha sofferto la campagna elettorale.

© RIPRODUZIONE RISERVATA