Democrazia sempre più in crisi nel mondo

Le nazioni nascono sempre da una prova di fuoco. Può essere un conflitto militare, una guerra civile o un trauma economico. Ci voleva il deflagrare della guerra nel cuore del vecchio Continente perché gli Stati europei, posti di fronte alla minaccia della perdita della sovranità, scoprissero di avere un destino comune. Vedremo presto se questa resilienza sia la premessa del consolidamento di un sentimento nazionale europeo o solo un fuoco di paglia.

Qualunque sia l’esito di questo drammatico passaggio storico non bisogna perdere di vista le condizioni di debolezza che affliggono da tempo l’Europa e in parte gli stessi Stati Uniti. È finita l’epoca d’oro in cui l’Occidente ha dominato con la sua cultura e la sua potenza economica e politica il mondo. Prima in sordina nel corso dell’Ottocento, poi in maniera eclatante nel Novecento, è tramontato il ruolo egemone dell’Europa, centro nevralgico del mondo per almeno quattro secoli. È venuto il tempo degli Stati continentali: Usa, Russia, Cina.

Il dato economico è il più eloquente. L’impero britannico, alla vigilia della prima guerra mondiale era ancora la massima potenza del globo. Deteneva circa il 20% del reddito mondiale. Ora la sua quota è crollata a meno del 4%. Non parliamo poi del dato demografico. Le nazioni europee assistono impotenti alla contrazione continua della loro popolazione. Minor peso economico e demografico, minore influenza sul piano culturale. Il dilagamento della Cancel Culture, la liquidazione della propria storia, è solo la punta estrema di un processo in atto di autodistruzione dell’identità collettiva occidentale. Il disfattismo sul proprio passato è la premessa del collasso della fiducia nel proprio futuro.

Pesanti appaiono le ricadute politiche sul piano interno e internazionale. Tra vincenti e perdenti della globalizzazione, tra élite e popolo s’è aperta una frattura. Le classi alte non sono considerate più classe dirigente, ma semplicemente una casta, preoccupata solo di auto-conservarsi.

Non manca anche un’acuta crisi sociale. Il passaggio dall’economia «fordista» a quella informatica e telematica ha eroso la tenuta del sistema sociale. Il corpaccione dei ceti medi, la grande architrave della democrazia postbellica, è stato investito dalla tempesta della globalizzazione. Delocalizzazioni, disoccupazione tecnologica, concorrenza al ribasso delle economie emergenti: tutto ciò ha ingenerato incertezza e paura. La molla che ha spinto intere generazioni a scommettere sul futuro s’è inceppata. Pesanti appaiono le ricadute politiche sul piano interno e internazionale. Tra vincenti e perdenti della globalizzazione, tra élite e popolo s’è aperta una frattura. Le classi alte non sono considerate più classe dirigente, ma semplicemente una casta, preoccupata solo di auto-conservarsi. La democrazia, altro pilastro della civiltà occidentale, perde colpi, nonché la fiducia dei cittadini. È la fortuna del populismo che contesta il principio stesso fondante della democrazia parlamentare: la delega.

Essere in crisi non significa essere condannati a un declino inarrestabile. Il destino di una civiltà dipende da molti fattori. Forse il più importante - come sta dimostrando oggi il popolo ucraino, dimostratosi capace di resistere alla soverchiante potenza russa - è la capacità reattiva dell’opinione pubblica unita alla sapienza politica della classe dirigente.

Ma ciò che illustra in maniera più drammatica la crisi della democrazia è la sua ritirata in tutto il globo. Come ricordava alcuni giorni fa Maurizio Ferrera sul Corriere della sera, la popolazione mondiale che vive in un regime libero è passata nel breve volger di quindici anni dal 46% al 20%, mentre quella che vive sotto regimi autoritari è cresciuta dal 36% al 39%. La democrazia è stata doppiata. Di più: i regimi autoritari (Cina docet) dimostrano che la crescita economica è possibile, anzi talvolta riesce meglio senza la democrazia. Essere in crisi non significa essere condannati a un declino inarrestabile. Il destino di una civiltà dipende da molti fattori. Forse il più importante - come sta dimostrando oggi il popolo ucraino, dimostratosi capace di resistere alla soverchiante potenza russa - è la capacità reattiva dell’opinione pubblica unita alla sapienza politica della classe dirigente.

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