Facebook, deriva
di un’idea geniale

Uno studente allora diciannovenne, Mark Zuckerberg, mentre frequentava il secondo anno all’Università di Harvard, il 28 ottobre 2003 rese disponibile sul sito web «Facemash» le foto dei documenti di riconoscimento degli allievi, dopo essersi introdotto in aree protette della rete universitaria. «Facemash» registrò più di 450 ingressi e 22 mila foto guardate durante le prime quattro ore di visibilità del sito, ma fu chiuso pochi giorni dopo dai responsabili dell’ateneo. Zuckerberg fu accusato di aver violato la sicurezza, i copyright e la privacy individuale. Ma non subì provvedimenti.

Quell’intuizione però nel giro di pochi anni è diventata uno dei fenomeni on-linee e sociali più importanti di questa epoca, affermandosi fuori dai muri di Harvard: con il nome di Facebook, oggi è il social network più diffuso nel mondo con 2,5 miliardi di utenti fedeli (il tempo medio trascorso per utente nella giornata è di 35 minuti). È utilizzato dal 50% degli italiani. La società ha un utile netto di 29,1 miliardi di dollari e 58 mila dipendenti.

È uno strumento digitale nato da un’idea geniale, utile per tante ragioni: permette di incontrare persone di tutto il mondo, di cercare vecchi amici di cui si sono perse le tracce, di pubblicizzare territori e iniziative pubbliche interessanti, di discutere sui temi di attualità e alle aziende di diffondere (a pagamento) i propri prodotti. Ma ben presto Facebook ha messo in mostra anche i suoi limiti: è diventato una cloaca di insulti e di aggressività attraverso post e commenti, di pubblicizzazione di proposte nocive e di un dibattito politico scadente quando non greve e denso di odio. Tra gli utenti c’è chi esibisce un ego ideologico e chiuso, confondendo il proprio pensiero con la realtà e la verità. Facebook ha dato voce e una vetrina a un’umanità priva di rispetto per il prossimo, figlia di questa epoca iperindividualista. Su questa melma da censurare dovrebbero vigilare gli algoritmi e 40 mila addetti della società. Ma l’evidenza ci dice che sono filtri deboli e contraddittori: la foto di un bambino yemenita malnutrito a corredo di un post su una guerra dimenticata viene rimosso, l’immagine elaborata e grave del cancello di Auschwitz con la scritta «Il vaccino rende liberi» invece no.

I documenti forniti al Congresso americano dall’ex dirigente della multinazionale di Zuckerberg, Frances Haugen, denunciano come a Facebook avrebbero sistematicamente messo il profitto davanti a tutto, non fermando la disinformazione e l’odio online per aumentare la partecipazione degli utenti e quindi la raccolta dei loro dati personali e appunto il profitto. Non solo: non hanno fatto nulla anche quando hanno scoperto che Instagram, di proprietà della stessa società, aveva (ha) effetti negativi sul benessere psicologico degli adolescenti spinti a sembrare sempre belli e felici, diventando invece sempre più infelici. «Gli stessi studi interni di Facebook - ha detto Haugen - paragonano l’uso di Instagram dei teenager alle astinenze di un drogato». Un’altra rivelazione riguarda le risorse ( pochissime) dedicate in questi anni al filtraggio di contenuti violenti ed estremisti in lingue che non siano l’inglese e a Paesi che non siano gli Stati Uniti, cui sono state dedicati l’87% dei fondi per la prevenzione di fake news e post pericolosi contro il 13% del resto del mondo, Italia inclusa.

Dai documenti risulta poi come Facebook, dopo le elezioni del novembre scorso negli Usa, abbia allentato il filtro alle notizie false dilaganti, soprattutto per iniziativa dell’estrema destra e di formazioni eversive che poi hanno lanciato l’assalto del 6 gennaio a Capitol Hill. Solo allora, il social avrebbe ristretto le maglie. Troppo tardi. Le replica di Zuckerberg è di aver rimosso il 94% dei post di odio. Ma i «file» di Haugen ridimensionano questa cifra al 5%. Decine di documenti aziendali visionati da giornali americani evidenzierebbero come l’«engagement» (il «coinvolgimento» degli utenti per farli rimanere collegati più tempo possibile) sia stato spesso anteposto alla cancellazione di post disinformativi o estremisti. Facebook ribatte di aver investito 13 miliardi di dollari per la sicurezza degli utenti online. Ma ora la Gran Bretagna mette in agenda una legge dura: se i social media non rimuovessero tempestivamente fake news, materiale di odio, terroristico, razzista, omofobo o pericoloso per i bambini, potrebbero pagare multe fino al 10% del loro fatturato mondiale.

Facebook ha allo studio il cambio di nome, ormai compromesso. Non vengono escluse nemmeno le dimissioni di Mark Zuckerberg, amministratore delegato dell’azienda. A chi ha la responsabilità, spetta invece il compito di capire da dove germina l’odio (non tutto è giustificabile con il disagio sociale) e come affrontarlo evitando di dargli altre vetrine.

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