Ferite
profonde
nell’America
post Trump

Lui, Donald Trump, è sempre lì, a dire che l’elezione di un anno fa fu rubata, che Joe Biden è un usurpatore, che nel 2024 la farà vedere a tutti. E i suoi proclami qualche turbamento lo provocano, visto che Biden, per sconfiggerlo, dovette mettere insieme il più gran numero di voti (più di 80 milioni) della storia delle elezioni presidenziali americane. Magari ci penseranno i magistrati di New York, che indagano lui e i suoi familiari per frode fiscale, o l’assai meno temibile Commissione parlamentare che ammassa migliaia di documenti per provarne le responsabilità politiche.

Resta da vedere, comunque, come riuscirà Trump a far dimenticare agli americani le ore drammatiche dell’assedio a Capitol Hill del giorno 6 gennaio, l’assalto al Parlamento, la devastazione dell’aula, i quattro morti, il non esaltante spettacolo delle massime cariche istituzionali spinte via dai servizi di sicurezza, più in generale la clamorosa violazione di quel fair play istituzionale che negli Usa è una legge non scritta. Nemmeno nel 2001, quando George Bush vinse contro Al Gore grazie a 600 voti scrutinati chissà come nella Florida governata da suo fratello Jeb, si era sentito dire che la vittoria era stata «rubata».

Anche perché di quell’assalto Trump porta la responsabilità intera. Il suo ufficio legale, guidato dall’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, presentò mille ricorsi e le tentò tutte per bloccare l’arrivo di Biden alla presidenza. Non una di quelle iniziative trovò ascolto nelle sedi competenti. L’unica cosa che ebbe effetto fu l’appello dello stesso Trump all’elettorato repubblicano più radicale e alla miriade di gruppi e gruppuscoli, più o meno esagitati, che credevano alla sua teoria del complotto, che vedeva coinvolte più o meno a casaccio la Cina, l’Italia e persino le Poste americane. Fu il carisma (ebbene sì, esisteva) di Trump a convogliare sul Campidoglio di Washington migliaia e migliaia di dimostranti convinti di poter fermare il processo elettorale ritenuto truffaldino.

Su quelle ore grottesche e drammatiche i democratici hanno giustamente ricamato, costruendo il mito della «ora più buia della democrazia». L’ennesima perdita dell’innocenza su cui bisognerebbe, però, interrogarsi un po’ più a fondo. Non erano stati i democratici a condurre una guerra politica e mediatica senza quartiere, dopo la sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, spiegando al mondo che anche quella era stata una vittoria rubata grazie all’opera degli hacker russi? E parlando di innocenza, non era stato un po’ più grave inventare la guerra contro l’Iraq nel 2003 o stroncare con metodi infami un movimento di contestazione pacifica come Occupy Wall Street nel 2011? Domande ora del tutto inutili, per almeno due ragioni. La prima è che il mantra della democrazia a rischio non serve più ai democratici, che con Biden presidente si trovano ad affrontare ben altre difficoltà. Soprattutto, una critica crescente sul terreno della politica economica e sociale, che rende per loro assai concreto il pericolo di perdere la maggioranza alle elezioni di medio termine. La seconda è che un anno dopo i trumpiani di provata fede sono ancora convinti, a stragrande maggioranza (il 91% secondo un sondaggio You Gov del 3 gennaio), che Biden sia diventato presidente non per i voti ma proprio grazie a una truffa. Questo significa almeno una cosa: che radicalizzare le posizioni e trasformare la battaglia politica in un braccio di ferro tra il bene e il male, come fecero prima Obama-Clinton e poi più ancora Trump, ha prodotto effetti profondi, e non belli, sulla società americana.

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