Fisco, urge una riforma
attenta ai ceti medi

Le tasse sono un tema passato in secondo piano, perché distratti e un po’ inebriati dalla pioggia di miliardi in arrivo in Italia, se ben spesi capaci di far salire il Pil di 3 punti. Eppure sarebbe davvero il momento migliore per mettere un po’ di ordine (e di giustizia sociale) in tema di fisco. Per ora, i tentativi di accostare i miliardi europei con il prelievo fiscale sono stati goffi. Il primo istinto è stato addirittura quello di usarli per abbassare le imposte. Troppo comodo, farsi pagare le tasse da Bruxelles e dagli altri soci dell’Unione. È arrivato il primo rimbrotto del nostro rappresentante lassù, Paolo Gentiloni: cominciate male. Sono richiesti ben altri progetti, l’indicazione delle priorità, la scelta di obiettivi ispirati allo sviluppo. È ovvio che i due temi sono correlati: crescita controllata del debito da un lato e prelievo fiscale dall’altro, ma per la prima volta c’è la possibilità di riformare, senza l’affanno e l’acqua alla gola delle restrizioni di bilancio.

Gli aiuti esterni sono in grado di sostenere le grandi operazioni strutturali che da soli non riusciamo a fronteggiare. Grazie al Mes, che dopo le elezioni verrà usato, arrivano 36 miliardi per la sanità, grazie al Sure 27 per la disoccupazione, con il Recovery sono 210 per digitalizzazione, modernizzazione, infrastrutture eccetera. Dalla Bei arriva una fetta dei 200 miliardi per investimenti.

Al resto, vogliamo pensare con i nostri soldi? Ci sembra il minimo, magari evitando di favellare di flat tax e di chiedere nei comizi di bloccare i pagamenti, perché fino a metà 2021 lo Stato ne ha bisogno per l’ordinaria amministrazione. Pensiamo dunque alla riforma fiscale. Ora o mai più. Ma quando si parla dell’argomento tasse, occhio ai luoghi comuni vittimisti e soprattutto attenti bene a non generalizzare. Non è assolutamente vero che è una disgrazia universale. Per qualcuno sì, ma per altri proprio per niente. Trenta milioni di italiani non pagano tasse o ricevono dallo Stato più di quello che versano. Su quasi 42 milioni di contribuenti, più della metà dichiara e paga sulla base di un reddito inferiore a 20 mila euro. Il 15% di cittadini paga il 45% di tutta l’Irpef. Dunque, possiamo dire che il Fisco è una colossale macchina di cattiva redistribuzione del reddito nazionale, questo sì. Alcuni troppo e alcuni troppo poco. L’evasione totale, specializzazione di veri e propri professionisti del crimine, è per fortuna in discesa, ma l’evasione legalizzata o tollerata è sempre superiore ai 100 miliardi. Nella giungla di deduzioni e detrazioni, che valgono da sole 105 miliardi, si fa in fretta a nascondersi. Dunque, sarebbe bene individuare con attenzione le priorità e noi, per non farla lunga, ne indichiamo in particolare una, denunciata dallo stesso vice ministro Antonio Misiani e ora gridata dall’Ordine nazionale dei commercialisti. Si tratta della vergognosa aliquota del 38%, che riguarda la gran parte di quelli che l’Irpef la pagano. Perché vergognosa? Perché va da 28 mila a 55 mila euro di reddito, e ben si capisce che i due estremi vivono in due mondi diversi, con l’aggravante che se i mestieri sono differenti (lavoro dipendente, lavoro autonomo) e il carico di famiglia anche, l’ingiustizia diventa ancor più eclatante.

I commercialisti propongono di usare l’aliquota precedente, il 27%, per tutta l’estensione, con riduzione a 4 degli scaglioni e un costo di 9 miliardi. Si può discutere, ma è certo che sarebbe una svolta per il ceto medio, che oggi ha in mano il futuro della crisi. La materia è diventata più per sociologi che per fiscalisti. Con l’attuale soglia, le parti più dinamiche del lavoro, quella attorno a 28 mila euro e a 55 mila euro, sono disincentivate a crescere. Occorre dunque coraggio e concretezza. Oppure lasciamo pur credere che i problemi finanziari li risolve il taglio dei parlamentari.

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