
(Foto di ansa)
ITALIA. I l cosiddetto «decreto sicurezza» (d.l. 48 del 2025) è stato approvato, ma le polemiche che ha suscitato, sin dal suo primo apparire (sotto forma di d.d.l.) non si placano. E a buon diritto, perché questo decreto solleva, alla luce della Costituzione, perplessità di metodo e di contenuto.
Di seguito ne indicherò alcune, quelle che ritengo più gravi e che potrebbero giustificare l’annullamento del decreto da parte della Corte Costituzionale. Partiamo dalla forma, che è però già sostanza. Le misure di questo decreto sono inizialmente state contenute in un disegno di legge e cioè in un atto di iniziativa legislativa presentato al Parlamento. Come tale sono state discusse per circa sei mesi alla Camera e al Senato.
A un certo punto, senza che sia successo niente che giustifichi questa torsione, il Governo ha deciso di trasporne il contenuto, con qualche limatura, forse «ispirata» dal Quirinale, in un decreto-legge e cioè in un atto immediatamente vincolante ed efficace, avente valore di legge, approvato dal Governo stesso. Dal punto di vista costituzionale, ai sensi dell’art. 77 Cost., il decreto legge può però essere legittimamente adottato solo quando ricorrano presupposti straordinari di necessità e d’urgenza. In questo caso, tali presupposti sono palesemente smentiti dal fatto che i contenuti del provvedimento sono stati discussi in Parlamento per sei mesi. Di fronte alle difficoltà e alle opposizioni incontrate in Parlamento, il ricorso al decreto-legge è diventato il modo con cui il Governo ha sottratto l’esame di questo atto al Parlamento stesso, titolare del potere legislativo. Se questa scelta non venisse sanzionata dalla Corte Costituzionale, si infliggerebbe un ulteriore - non il primo - duro colpo al ruolo di legislatore del Parlamento, perché ogniqualvolta questo faccia il suo «mestiere» - e cioè discuta, nella dialettica vivace tra maggioranza e minoranza - il Governo potrebbe deviare l’approvazione sul binario semplificato del decreto d’urgenza.
Tanto più, ed è questo un secondo motivo, che la decretazione d’urgenza risulta, in base a precedenti pronunce della Corte Costituzionale, una scelta fortemente discutibile e delicata quando il suo oggetto investa la materia penale e cioè le scelte sanzionatorie più pesanti che il legislatore possa adottare. A differenza della legge, infatti, il decreto-legge entra immediatamente in vigore, tagliando così i tempi necessari affinché il corpo sociale possa conoscere la novità legislativa e vi si possa adeguare. Mentre cioè la legge entra in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione, il decreto-legge è immediatamente efficace. Questa differenza incide negativamente su un principio fondamentale del diritto penale di uno Stato di diritto e cioè sulla conoscibilità del reato (e, conseguentemente, sulla certezza della pena). Se si passa al merito delle (disomogenee) scelte legislative contenute nel decreto sicurezza, le perplessità non sono minori.
La cifra sintetica di questo provvedimento è rinvenuta in un indirizzo di tipo securitario, volto a irrigidire la reazione repressiva dello Stato, di fronte ad alcune condotte sociali, di cui si vuole enfatizzare il disvalore. Entro certi limiti, questa scelta di penalizzazione rientra nelle legittime priorità dell’indirizzo politico. E tuttavia, su alcune scelte, la discrezionalità sembra travalicare il confine del costituzionalmente legittimo. Suscita perplessità, ad esempio, il ritorno alla penalizzazione del cosiddetto «blocco» di strada ordinaria o ferrata (art. 14), punito anche con la reclusione, mentre in precedenza era prevista la sanzione amministrativa; tale pena giunge fino alla reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite. All’art. 24 un aggravio di penalizzazione è previsto in caso di deturpamento e imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche.
La recrudescenza penale tradisce la cattiva coscienza, se non l’ipocrisia, di una Repubblica che ha appena inserito tra i principi fondamentali (art. 9) la tutela dell’ambiente, anche nell’interesse delle future generazioni, e che ora criminalizza il dissenso che si esprime di fronte alla lentezza o all’insufficienza dell’azione istituzionale
Queste (e altre) misure sollevano dubbi in relazione a un principio di diritto penale liberale e cioè alla proporzionalità tra la pena (la reclusione) e l’effettiva offensività del reato. Non sfuggirà che alcune di queste novità mettono nel mirino anche, se non soprattutto, le modalità, certo discutibili, con cui hanno preso forma le proteste per il clima da parte di alcuni movimenti. La recrudescenza penale tradisce la cattiva coscienza, se non l’ipocrisia, di una Repubblica che ha appena inserito tra i principi fondamentali (art. 9) la tutela dell’ambiente, anche nell’interesse delle future generazioni, e che ora criminalizza il dissenso che si esprime di fronte alla lentezza o all’insufficienza dell’azione istituzionale. E dire che già dal 2023, lo Special rapporteur Onu Forst aveva criticato un orientamento, diffusosi anche in Europa, repressivo nei confronti di queste manifestazioni di disobbedienza civile, perché non considera adeguatamente le ragioni che le animano. Il rischio è che il decreto, attraverso le limitazioni inferte alla libertà di riunione, inibisca la manifestazione del dissenso e alteri quel principio di tensione dialettica tra azione istituzionale e partecipazione-resistenza civica che è il cuore della Costituzione.
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