Fragilità, condizione
umana riabilitata

In settimana è accaduto un fatto che esula dall’ambiente in cui è maturato. Cesare Prandelli, già calciatore dell’Atalanta e poi mister scudettato della squadra Primavera, si è dimesso da allenatore della Fiorentina con una lettera coraggiosa e vera, che ha esposto al pubblico le motivazioni di una scelta umanamente dolorosa: «Nella vita di ciascuno - ha scritto Prandelli - oltre alle cose belle, si accumulano scorie e veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Per il troppo amore sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa che non era esattamente al suo posto dentro di me». Il mister ha parlato di un’ombra dentro di sé ed è conscio delle possibili conseguenze della sua decisione: «So che Firenze capirà e sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne». Quello che non aveva messo in conto invece erano gli insulti e le dietrologie dei soliti soloni attivi sui social.

Ma in soccorso di Prandelli è arrivato un altro allenatore, e che allenatore: Arrigo Sacchi, che con il Milan vinse di tutto e fu commissario tecnico della Nazionale. Anche lui lasciò la panchina, nonostante gli allori: non reggeva più lo stress e le vittorie non compensavano più questo stato di debolezza. «La colpa - ha detto - è della cultura della vittoria ad ogni costo, sbagliatissima. Il concetto del “se non vinci sei un fallito” è il peggior insegnamento che si possa dare a un ragazzo. L’errore, la sconfitta, fanno parte della vita. Perdi solo se non dai il massimo. E se non impari». Pure il mondo del calcio, che da uno sguardo superficiale appare popolato da uomini forti non solo fisicamente, induce in chi lo frequenta a cadute e a rese.

Conosciamo la fragilità fisica, quella dei disabili, dei malati cronici e di tanti anziani, ma c’è anche quella psicologica o di carattere. Dietro a persone aggressive ci sono in realtà debolezze che vengono coperte proiettandole sul prossimo, vestendo uno scudo protettivo. Il narcisismo poi è una malattia della nostra epoca: il narcisista vive con la sola preoccupazione dell’immagine che dà di sé stesso, senza mai guardarsi dentro.

La pandemia di Covid ci ha fatto scoprire quanto siamo fragili. Non abbiamo previsto il sorgere e la diffusione di una malattia contagiosa e mortale e fatichiamo a reggere a lungo le limitazioni della libertà. Abbiamo scoperto nella nostra provincia l’esistenza di migliaia di persone fragili fisicamente, disabili e anziani che quando la vita scorreva normalmente non erano al centro dell’attenzione (basti pensare alle nostre città e paesi, pieni di barriere architettoniche come se quelle persone non avessero diritto a una vita pubblica agevolata). Abbiamo rivalutato il bisogno vitale di relazioni e di comunità che ci proteggano nel momento del bisogno e della solitudine. «Non ne usciremo da soli» è stato uno degli slogan edificanti di questo anno stravolto dal virus.

Se siamo onesti con noi stessi, ogni giorno ci confrontiamo con le nostre fragilità, con i nostri limiti che cerchiamo di superare con la spinta al fare, con gli ideali per chi ne ha ancora. Il grande scrittore Luigi Pirandello diceva che «imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti». La maschera di chi non si mostra per come è ma per come gli altri si aspettano che sia o la maschera patologica del narcisista. Il Covid ha mostrato e riabilitato la nostra fragilità, una condizione umana. Uscirne migliori, se qualcuno ancora ci crede, significa anche cambiare sguardo verso i reietti, rinchiusi in una fragilità insuperabile, lascito di vite maltrattate e perse nella povertà e nell’abbandono.

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