Fraternità, le periferie del mondo dove muore

MONDO. La fraternità non è un principio connotato solo religiosamente, ma è un criterio etico-sociale di convivenza e ne è stata, perfino, riconosciuta una valenza politico-giuridica.

Papa Bergoglio ha fortemente rilanciato il senso di questo valore per la dottrina sociale della Chiesa, mettendolo al centro di una delle sue più apprezzate (almeno a parole) encicliche: la «Fratres omnes». Come principio politico-giuridico, a partire dal celebre motto della Rivoluzione francese, la fraternità ha ricevuto una traduzione solenne nell’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

Che cosa è la fraternità

Si può tentare di definire la fraternità come quell’atteggiamento che, muovendo dal riconoscimento di una condizione non scelta – l’essere fratelli – e dunque di un legame preesistente, fondato su una comune natura o sulla stessa figliolanza divina, ne fa discendere l’imperativo di una condotta personale, sociale e politica di cura. Sicché da riconoscimento e affermazione di verità essa diventa una virtù di comportamento.

La fraternità ha lo statuto assiologico di un universale concreto: partendo dal riconoscimento di una condizione e di un legame universali, essa non può che manifestarsi nella circostanza o nella relazione particolare. Essa è cioè chiamata a verificarsi e a inverarsi nell’approdo al particolare, pena altrimenti la sterilizzazione della comunanza assunta. Nel particolare si riflette la luce dell’universale e, al contempo, l’universale si fa necessariamente carne nel particolare.

All’interno di questo percorso, due sono le criticità. La prima si annida nel «particolare», che, pur essendo il terreno necessario di incarnazione dell’universale, ne sfida costantemente l’apertura. La cura, anche intensa, ma ristretta, della relazione fraterna non deve infatti portare a pregiudicare l’apertura ad un terzo (momentaneamente) assente dalla cerchia fraterna e la sua possibile e sempre attesa inclusione.

La seconda è una patologia che afferisce al piano dell’«universale»: in essa si ricade quando si proclami il valore universale (della fraternità) fino a «tracciare una figura astratta dell’umano, che diventa (…) il terreno della sua impotenza essenziale. Quella figura presuppone infatti l’esistenza di un sostrato comune, sorta di zoccolo condiviso in nome del quale scontri e massacri dovrebbero interrompersi. Ma quel sostrato non si traduce mai nella concretezza di una situazione» (M. Benasayag-A. Del Rey, «Elogio del conflitto»).

Questo è ciò che sta accadendo oggi e che interpella anche e soprattutto l’Occidente e i suoi proclamati valori: l’incapacità di leggere e tradurre l’universale – anche l’universale minimo ed essenziale, come la protezione della vita più vulnerabile e innocente – quando si incarna in un «locale» remoto, geograficamente o socialmente. Il riconoscimento del legame sembra svanire, fino a cancellare l’imperativo della comune responsabilità. A Gaza e in altre periferie del mondo si rischia di celebrare il funerale della fraternità. Potremo ancora evocare quel principio senza arrossire?

© RIPRODUZIONE RISERVATA