G7, formula con le rughe
ma le sfide non mancano

Sul G7 che si apre nelle prossime ore eserciterà molta influenza la location, cioè Biarritz in Francia. L’orgoglio transalpino e l’ambizione del padrone di casa Emmanuel Macron, che si sente leader dell’Europa unita, contribuiranno a restituire al summit una parte del vecchio splendore. Ma sarà difficile nascondere le rughe e le difficoltà di un’istituzione che sembra allontanarsi, lentamente ma inesorabilmente, dalla dura e concreta realtà internazionale. Intanto, arriveranno a Biarritz una Angela Merkel a fine corsa, il premier italiano Conte col suo destino incerto, il premier inglese Boris Johnson portatore di una Brexit «cattiva» e per di più esordiente al G7, il presidente Trump che non cessa di picconare i vecchi alleati e il polacco Donald Tusk che, come presidente del Consiglio d’Europa, sta per cedere la sedia a Ursula von der Leyen. Non è colpa di nessuno ma la macedonia dei leader non pare benissimo assortita.

Non si tratta solo di questo, ovviamente. È proprio la formula di questo incontro tra nazioni che pare ormai inadeguata rispetto alle grandi sfide internazionali. Fino al 1976 era una G6, poi entrò il Canada e fu G7. Nel 1997 fu ammessa la Russia e si arrivò al G8. Dal 2014, a causa della crisi ucraina, si è tornati alla formula a sette (fuori la Russia), ovvero alla vecchia idea del club delle potenze economiche occidentali (ma sarebbe meglio dire: potenze economiche a democrazia liberale), idea che appunto ormai batte in testa. Si può presumere di dare una regolata ai problemi globali senza Cina, Russia, India, Turchia o Arabia Saudita, che democrazie liberali non sono ma pesano assai? Senza una rappresentanza dell’Africa e dell’America Latina?

Non a caso nel 2009 il G7 divenne una tantum G14 mentre prima ancora, nel 1999, era stato creato un quasi assemblearistico (e inutile dal punto di vista decisionale) G20. Donald Trump, coi suoi soliti modi bruschi, ha anticipato questo tema, che verrà discusso a Biarritz, dicendosi favorevole al reintegro della Russia. E lo stesso Macron, invitando il premier indiano Narendra Modi, ha mostrato di riconoscere il problema.

Non è difficile prevedere che Trump sarà di nuovo protagonista, proprio come l’anno scorso quando all’ultimo istante fece naufragare un comunicato congiunto ch’era stato raggiunto con enormi difficoltà. Basta sfogliare l’agenda del summit per capirlo. Si parlerà di Iran, su cui le posizioni di europei e americani sono lontanissime. Sulla Libia, altro tema caldo, Usa e Francia sembrano ora più vicini ma la questione collegata, quella delle migrazioni, fa prevedere scintille. E poi l’Ucraina, la Siria e il Medio Oriente, il Venezuela.

Sarà inevitabile, con i roghi in Siberia e in Amazzonia che divorano quantità enormi di foresta e di futuro, affrontare l’emergenza ambientale. E di nuovo, tra gli Usa di Trump che stentano a riconoscerla come tale e l’Europa che vuole invece porsi all’avanguardia di una nuova coscienza ecologica, saranno discussioni non da poco. Più in generale, sarà difficile evitare, qualunque sia il tema sul tavolo, una discrepanza tra gli Usa dove già impazza la campagna elettorale per le presidenziali del 2020 e l’Europa che, bene o male, ha da poco votato e quindi si è data un assetto per i prossimi anni. Avrà il suo peso, in questa dialettica, la posizione che Boris Johnson, un favorito di Trump, farà prendere al Regno Unito. Ma come si diceva, è la formula da caminetto dei belli e dei buoni a sembrare un po’ vecchia. Tanto che i più pessimisti le danno giusto un altro anno di vita. Perché l’anno prossimo il G7 (o G8?) si svolgerà negli Usa, con Trump ancora regnante ma in piena corsa per la rielezione e «America First!» ancora in voga. Che potrà succedere con Donald alla guida?

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