G8 di Genova, il giudizio
è chiuso per sempre

A 20 anni dal G8 di Genova e dai gravissimi fatti che tennero sospeso per giorni lo stato di diritto in Italia, la giustizia continua a emettere il suo giudizio come un’onda lunga. Si tratta stavolta di un verdetto europeo, quello della Corte europea dei diritti dell’uomo, che rigetta come «irricevibili» i ricorsi presentati da alcuni poliziotti che erano stati condannati per la famigerata irruzione nella scuola Diaz, alla periferia della città della Lanterna. Ed è come se i giudici, rifiutandosi di emettere un’altra sentenza, la emettessero di fatto. Le accuse dei ricorrenti, dicono i giudici di Strasburgo, sono «manifestamente infondate» e il ricorso è «irricevibile». Nella sostanza la Corte sentenzia che non c’è nulla da aggiungere ai tre gradi di giudizio emessi dalle corti italiane.

Per i gravissimi pestaggi alla Diaz (ma parlare di pestaggio è un eufemismo, quella notte i manganelli del reparto celere hanno rotto avambracci, crani, femori e quant’altro, senza pietà, lasciando macchie di sangue dappertutto e giovani e vecchi senza sensi sui pavimenti delle aule della scuola), la Corte di Cassazione ha confermato le condanne per 40 imputati ritenuti colpevoli (ma per 33 di loro il reato è prescritto). I pubblici ministeri di Genova avevano chiesto 76 anni in tutto. Gli occupanti della scuola, che nulla avevano a che fare con i black bloc che invece avevano messo a ferro e fuoco la città e fatto sfuggire di mano la situazione alle forze dell’ordine, vennero poi trasferiti nella caserma di Bolzaneto, dove furono sottoposti a torture fisiche e psicologiche. Un film che dà l’idea di quel che è accaduto è senz’altro il film «Diaz» di Daniele Vicari, sconsigliato però a chi ha uno stomaco particolarmente delicato.

Del resto non avrebbe potuto essere diversamente. La Cedu si era già pronunciata sui fatti di Genova, definendo il blitz notturno nella scuola «punitivo, vendicativo e diretto all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». I fatti della Diaz consumati tra il 19 e il 21 luglio 2001 hanno segnato un’altra notte della Repubblica, un vero e proprio trauma in cui sono state soppresse le garanzie costituzionali. Non fu un’operazione di polizia, fu una rappresaglia di stampo sudamericano che nell’intenzione di chi l’ha diretta doveva ristabilire il potere scivolato via delle forze dell’ordine soccombenti e che invece ha lasciato una ferita aperta nella storia del Paese. Anche se nei tempi lunghi l’Italia ha dimostrato di essere uno Stato di diritto, grazie alla garanzia della suddivisione dei poteri e all’azione inflessibile della magistratura e degli altri corpi di polizia. Non è stato un percorso facile. Ci sono stati anni di insabbiamenti, depistaggi, dichiarazioni fuorvianti, omertà e reticenze anche da parte delle figuri apicali delle forze dell’ordine. Qualcuno ha pagato, altri no. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che dopo Bolzaneto la tortura è tornata a essere reato in Italia (con pene molto severe che vanno dai 4 ai dieci anni di reclusione se sono commessi da un pubblico ufficiale).

Il giudizio su quei fatti è chiuso per sempre, riaffermando ancora una volta le norme imprescindibili di uno Stato che tutela i diritti umani, punisce ogni prevaricazione da parte delle forze dell’ordine e sancisce la sacra tutela di ogni imputato quando perde provvisoriamente la sua libertà personale. Ma la sospensione dei diritti civili e umanitari non è una faccenda cancellata per sempre, occorre vigilare sempre. I fatti inquietanti di Santa Maria Capua Vetere sono lì a dimostrarlo.

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