Gioco e narcosi esistenziale

ITALIA. Il recente nuovo scandalo del calcio scommesse, che ha coinvolto sul piano giudiziario, almeno per ora, una promessa del calcio di serie A come Fagioli, nonché più o meno direttamente altri giocatori del giro della Nazionale come Tonali e Zaniolo, ha gettato nello sconforto tutti noi cittadini, tifosi e non tifosi.

Siamo tutti increduli, in un tempo che ci racconta di esseri umani e popoli devastati da guerre a noi adiacenti, nel vedere come ci si possa auto devastare senza apparente motivo. Ogni valutazione circa le responsabilità penali e sportive di ciascuno va ovviamente rimessa alle autorità competenti. Il fenomeno, sia ben chiaro, non è circoscrivibile al solo ambito calcistico, bensì al mondo del gioco nelle sue infinite diramazioni sempre meno ludiche e sempre più ludopatiche. Un ambiente, quello delle scommesse, che ha subito negli anni una profonda trasformazione. Gran parte del secolo scorso ha visto prevalere una cultura che vedeva nel gioco un pericolosissimo vizio a cui si dava un’etichetta sociale di disvalore: «La tassa degli imbecilli». In quegli anni l’attività dei Monopoli di Stato (Aams) era orientata a contenere l’espansione dei giochi e

Dalla metà degli anni Novanta l’atteggiamento dei Monopoli ha subito una svolta sostanziale a seguito della decisione di riportare sotto il controllo statale la maggior parte dei giochi e delle scommesse. Si è così giunti alla progressiva legalizzazione di varie tipologie di giochi, attraverso una strategia di marketing preordinata a raggiungere tutti gli strati della società, dai giovani agli adulti, alle donne, agli anziani, alle famiglie di ogni ceto sociale. Ai giochi tradizionali come il Totocalcio e il Lotto, caduti progressivamente in declino, se ne sono aggiunti altri come l’Enalotto, il Bingo, le lotterie istantanee (il Gratta e vinci) e, soprattutto, le scommesse via internet su vari avvenimenti sportivi. L’obiettivo dichiarato era quello di contrastare le organizzazioni criminali nel campo dei giochi illegali, divenuti una vera e propria industria clandestina il cui fatturato aveva raggiunto livelli considerevoli. Accanto a tale obiettivo ve ne era però un altro che, anno dopo anno, è divenuto preponderante. Quello, cioè, di acquisire attraverso il gioco risorse utili per finanziare il bilancio dello Stato, stante la cronica incapacità dei governi di reperire risorse attraverso oculate politiche di bilancio, di adottare un sistema fiscale equilibrato ed efficiente e di realizzare una decisa lotta all’evasione fiscale. In questa nuova prospettiva di vero e proprio «business di Stato», il mercato legale dei giochi ha raggiunto in pochi anni una rapidissima espansione, sia attraverso la rete fisica, sia attraverso il web. La raccolta complessiva è aumentata da 15 miliardi di euro del 2003 a 61,4 miliardi del 2010, raggiungendo circa il 4% del Pil e contribuendo per 11 miliardi di euro alle entrate erariali dell’anno. Inoltre, la possibilità offerta di giocare in luoghi abitualmente frequentati per altre esigenze come bar e tabacchi, fa sì che circa il 27% degli italiani giochi più di tre volte alla settimana. Ancor più preoccupante è, però, che tra questi giocatori circa due milioni, soprattutto giovani, siano «compulsivi», cioè portatori di una sintomatologia simile a quella della dipendenza alcolica, che si manifesta attraverso un completo coinvolgimento nel gioco e che porta spesso alla disperata ricerca di danaro, facendo anche ricorso come noto a usurai e organizzazioni criminali (terribile la confessione di Fagioli sulle minacce subite: «Ti spezziamo le gambe»).

C’è da chiedersi, allora, perché si giochi. Il brivido del successo nell’aver previsto quello che sarebbe accaduto? L’illusione di poter risolvere tutti i propri problemi senza fatica attraverso soldi facili? La convinzione di aver scommesso sul certo, come nel caso del calcio scommesse, sfruttando comportamenti criminali tendenti a determinare l’esito di alcuni eventi? Tutto possibile, tutto facilmente esecrabile, eppure tutto insufficiente per giustificare vite grasse e di successo che si autoinfliggono disgrazie infinite. Forse c’è di più. Forse, in questo drammatico processo di narcosi esistenziale collettiva ci siamo tutti un po’ dentro.

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