Giustizia e civiltà
La riforma che divide

La riforma della giustizia penale divide la maggioranza giallorossa. Le parti stanno lavorando a un compromesso che pare ostico. Il convitato di pietra è invece il cambiamento del sistema penitenziario, che sarebbe altrettanto urgente: dal sovraffollamento al sostegno delle pene alternative, al lavoro in carcere al prendere consapevolezza di una tensione crescente nelle celle (prova ne siano le quattro inchieste aperte per aggressioni e violenze su detenuti da parte di agenti di polizia penitenziaria, da tempo sotto organico, in altrettanti istituti di pena). Ma questa seconda riforma richiederebbe coraggio: non è il tempo.

Intanto dal 1° gennaio prossimo saranno in vigore i nuovi termini di prescrizione voluti dai 5 Stelle e votati dalla maggioranza precedente, che congelano il decorso del processo dopo il verdetto di primo grado. In Italia, secondo i dati del ministero della Giustizia, il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini. Altro che primo grado. Negli ultimi dieci anni le prescrizioni si sono ridotte del 40%, dagli oltre 213 mila procedimenti estinti nel 2004 ai circa 132 mila nel 2014.

Su cento procedimenti 9,5 si prescrivono: 5,7 nella fase delle indagini preliminari, 3,8 nel corso dei tre gradi di giudizio. Con i nuovi termini un imputato rischia di restare nel processo per anni. Al punto che già ora c’è chi arriva a patteggiare, pur non avendo commesso il reato contestato, pur di lasciarsi alle spalle le aule di giustizia. Il Pd ha messo a punto una proposta – al centro del duro confronto con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (5 Stelle) – per un compromesso: predeterminare, fase processuale per fase processuale e con particolare attenzione all’appello, termini certi, il cui mancato rispetto porterebbe alla decadenza dell’azione penale, proprio per non allungare a dismisura i termini dei processi. Nella bozza di riforma del ministro è prevista una durata massima dei processi penali, tarata sulla complessità dei procedimenti, da un massimo di 6 anni a un minimo di 3. Per il giudice che non li rispetta scatta l’illecito disciplinare Ma il ricorso a questa leva è ritenuto insufficiente dai due maggiori azionisti di governo: da una parte è considerato troppo timido, dall’altra non tutti i ritardi possono essere addebitati a negligenze o a trascuratezze dei magistrati, ma anche a imputati che cercano di dilatare i tempi.

Nel testo di riforma è poi previsto per la prima volta un intervento sul patteggiamento, elevando a 8 anni il limite della pena che può essere oggetto di accordo. Viene favorito anche il ricorso al rito abbreviato. La discussione si concentra sulla durata dei processi ed è già un obiettivo importante. Ma non affronta temi altrettanto rilevanti come l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, sotto la voce ingiusta detenzione, e gli errori giudiziari, ben documentati dall’Associazione italiana vittime di malagiustizia. L’ultimo caso di malagiustizia risale a martedì scorso, quando l’agenzia Ansa ha dato conto dell’avvocato di una banca in attesa da quasi tre anni e mezzo delle motivazioni con le quali i giudici hanno condannato un direttore di istituto a nove anni di reclusione, al termine di un’inchiesta per truffa, sostituzione di persona, costruzione di falsi profili creditizi. La banca è parte civile: i risarcimenti richiesti, se le motivazioni non verranno rese note a breve, potrebbero rimanere lettera morta. Allo stesso condannato, peraltro, è impossibile, in questa situazione, fare appello per cercare di ottenere il ribaltamento della decisione di primo grado.

Altra questione che non viene affrontata nel complesso del disegno di legge è la gogna mediatico-giudiziaria, che allestisce processi ed emette sentenze in tv o sui giornali. Ma per fermare questa dolorosa (per i presunti colpevoli) deriva si stanno attrezzando le singole Procure. Dopo Roma e Torino, è la volta di Napoli. Il procuratore capo Giovanni Melillo ha infatti adottato un ordine di servizio per disciplinare criteri e modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari ai media. Secondo il codice di procedura penale «durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti». Ora questa facoltà viene riconosciuta anche ai giornalisti, in particolare per gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari e non più coperti da segreto. L’obiettivo principale è garantire un accesso paritario e regolamentato ai provvedimenti evitando così che pochi cronisti «selezionati» continuino a ottenere le carte sottobanco, e spesso in maniera parziale, grazie alla benevolenza di inquirenti, investigatori o avvocati. Il documento si premura di stabilire criteri attraverso cui evitare che dagli uffici giudiziari escano notizie prive di rilevanza penale o potenzialmente lesive della riservatezza delle persone coinvolte e dell’andamento delle indagini. Sarà il procuratore stesso a valutare quali provvedimenti possono essere rilasciati. Già nel 2016 la stessa procura aveva imposto alla polizia giudiziaria di non inserire le intercettazioni irrilevanti per le indagini nei verbali delle operazioni. Non è censura, è civiltà.

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