Gli enti pubblici
cambiano strada

Il «Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale» - sottoscritto a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio e dal ministro Brunetta con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil - è un ulteriore passo compiuto con il «metodo Draghi»: definizione di strategie, obiettivi chiari, percorsi individuati e da tracciare nel minor tempo possibile. Ben venga, dunque, il patto, che è, di per sé, il risultato di una visione comune sulle finalità individuate. L’importanza dell’accordo è stata sottolineata dal premier, il quale ha osservato che il «buon funzionamento del settore pubblico è al centro del buon funzionamento della società».

Fa ben sperare il taglio dato al progetto, che poggia su due pilastri: investimenti tesi alla rapida digitalizzazione del sistema pubblico e centralità della selezione/formazione dei dipendenti. Un approccio pragmatico, lontano dai tanti tentativi falliti nel corso della storia del Paese, e nel contempo orientato a coinvolgere il personale pubblico, senza farne una controparte o, peggio, un nemico del cambiamento. Non molti anni fa Matteo Renzi definì la riforma della pubblica amministrazione la «madre» di tutte le riforme. Ma ella partorì soltanto qualche topolino.

Oggi occorrono risultati tangibili e, soprattutto, duraturi. Per questo motivo puntare su una migliore selezione e formazione implica far leva sulle risorse umane interne (presenti o da inserire) agli uffici pubblici. Sotto tale profilo il coinvolgimento dei sindacati diventa un elemento nodale della scommessa, poiché evidenzia che le organizzazioni dei lavoratori saranno chiamate a gestire il cambiamento e dovranno farlo senza arroccarsi in difese ad oltranza dei segmenti meno produttivi del sistema. Meglio non parlare più di riforma della pubblica amministrazione, termine abusato e logorato dai fallimenti, ma piuttosto lavorare per un «adeguamento» del sistema pubblico. Adeguarlo alle enormi responsabilità che esso ha nel gestire e concretizzare le scelte politiche. Dalla grande sfida del Recovery Plan, alle quotidiane esigenze di funzionalità dei servizi alla collettività. Con la consapevolezza che il sistema pubblico non può funzionare a macchia di leopardo con isole felici e antri paurosi nei quali non si vede la luce, altrimenti le scelte politiche adottate da Parlamento e Governo finirebbero fatalmente per arenarsi, se non venissero sorrette da un oliato funzionamento delle strutture amministrative.

Alcune cose da fare. Ricordarsi che le amministrazioni pubbliche, oltre a essere istituzioni, sono organizzazioni e hanno bisogno di funzionare per obiettivi e di raggiungere risultati. Sfoltire i ranghi (ottima l’idea degli esodi incentivati) in alcune parti e rafforzare nel contempo le strutture di frontiera con i cittadini: meno burocrati con la penna d’oca e più tecnici operativi, selezionati severamente in base alle qualità e alle conoscenze specifiche (che non possono essere soltanto giuridiche). Evitare di riprodurre la tradizionale diffidenza tra alti funzionari e responsabili politici. Questi ultimi dovrebbero puntare, nella scelta dei collaboratori, più sul criterio della competenza che su quello dell’appartenenza politica, limitando al massimo l’utilizzo di persone esterne all’amministrazione, le quali spesso poco sanno delle «macchine» che sono chiamati a guidare. Reintrodurre meccanismi di controllo rigorosi, rafforzando le strutture di ispezione sul funzionamento degli apparati (anche qui non soltanto di correttezza formale, quanto piuttosto di efficacia delle prestazioni rese). Sopra ogni cosa non ripetere gli errori del passato, evitando di soffocare l’amministrazione con un cumulo di norme. Al riguardo è bene tenere a mente l’antica (ma sempre illuminante) affermazione della sorella di Gaetano Filangieri, la quale graziosamente ebbe ad osservare: «Non fate nuove leggi, per carità; siamo già abbastanza impegnati a trasgredire quelle vigenti».

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