Governo e Regioni
Ormai è guerra

La domanda che tutti si fanno in queste ore è se siamo alla vigilia di un nuovo lockdown nazionale. Se cioè, sull’onda dell’aumento dei contagi che ormai tutti hanno il coraggio di definire esponenziale (ieri siamo arrivati ad un passo dai ventimila casi su 180 mila tamponi con più di mille ricoverati nelle terapie intensive) si debba decidere in fretta un fermo generalizzato delle attività. Il più restio ad una misura di questo genere è il presidente del Consiglio Conte. Lo ha ripetuto anche ieri pomeriggio: il governo farà di tutto per evitare che si giunga ad una misura così drastica, al bis di quanto è accaduto in primavera con danni incalcolabili all’economia del Paese. Si capisce del resto la resistenza del presidente del Consiglio: non solo la misura sarebbe altamente impopolare, ma infliggerebbe un colpo micidiale al nostro sistema produttivo già fortemente provato. Abbiamo fatto debiti inimmaginabili per far fronte alla prima ondata e abbiamo portato il rapporto del debito sul Pil al 136%, nessuno sa a quali altre misure saremmo costretti se si arrivasse a ripetere lo scenario già vissuto.

A sostenere Conte su questa linea è soprattutto il ministro dell’Economia Gualtieri che da settimane chiede prudenza e gradualità e teme per l’attesissimo rimbalzo del Pil nell’ultima parte dell’anno. Ma è noto che dentro il governo si muove una fronda di ministri più incline a misure robuste, costi quel che costi, e che è composta essenzialmente dal ministro della Salute Speranza e dal potente titolare dei Beni culturali Franceschini. Il quale esprime la stessa linea del segretario del Pd Zingaretti, che non si stanca di lanciare il suo «allarme rosso» per la situazione del Covid, di chiedere a Conte «un cambio di passo» , di insistere perché si corra verso un forma più rigida di restrizione della mobilità degli italiani.

Non è un caso che proprio Zingaretti, nella sua veste di governatore del Lazio, si sia affrettato a replicare la decisione di Lombardia e Campania e a ordinare il coprifuoco notturno (allo scopo di scoraggiare la cosiddetta «movida» dei giovani) e non abbia preso le distanze dalla decisione immediatamente successiva del suo compagno di partito De Luca di firmare una ordinanza che va ancora più in là, e istituisce il primo lockdown regionale in Campania. «Siamo ad un passo dalla tragedia, dobbiamo chiudere tutto subito», ha detto De Luca, aggiungendo: «Noi facciamo da apripista», e non mancando di accusare «altri» (cioè Conte) di non avere il coraggio necessario per prendere decisioni analoghe. Con Zingaretti, De Luca, Fontana, Cirio (Piemonte) si schiera anche il sardo Solinas, e l’arrivo dell’amministrazione regionale di Cagliari costruisce un «fronte» dei governatori che si muove in evidente sintonia con il ministro della Salute Speranza, e dunque neanche troppo velatamente cerca di forzare la mano a Palazzo Chigi criticandone implicitamente il temporeggiamento. È fatale che una simile dinamica ci stia conducendo alla solita confusione istituzionale: in questo momento alcune regioni si muovono in un modo, altre fanno scelte diverse o aspettano l’evolversi della pandemia (in Sicilia ci sono solo cinque persone ricoverate per Covid, e nessuno in terapia intensiva) mentre Palazzo Chigi si ritrova in una condizione di imbarazzante isolamento e sotto accusa per aver preso sinora con i due Dpcm misure troppo blande e contraddittorie o vaghe, tali da ingenerare confusione tra i cittadini. Non si può certo dire che la babele normativa sia il modo migliore per affrontare la nuova aggressione che il virus sta portando all’Italia come all’Europa. È per questa ragione che molti a Roma si aspettano un terzo Dpcm che inasprisca ulteriormente le restrizioni: sarebbe la prova che il «fronte delle Regioni» sta avendo la meglio sul «partito del Pil» (che pure ha le sue ragioni).

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