I falchi di Washington e il caso navi in Iran
La storia consiglia cautela

Bisognava avere una fiducia quasi cieca nella stupidità dei vertici politici e militari dell’Iran per credere che, con il primo ministro giapponese Abe in visita ufficiale di Stato a Teheran, potessero dare l’ordine di attaccare la petroliera «Kokuka Courageous», giapponese anch’essa, che si apprestava a entrare nello Stretto di Hormuz. E infatti, poco dopo, sono arrivate le dichiarazioni dell’armatore giapponese, al quale l’equipaggio (evacuato dalla nave danneggiata) ha parlato di «oggetti in volo».

Gli Usa hanno replicato mostrando il video di un barchino accostato alla petroliera, secondo loro una motovedetta iraniana che cercava di staccare una mina inesplosa dalla fiancata. È curioso che gli americani, con tutti i loro satelliti, le spie, le basi in 13 Paesi del Medio Oriente e i 54 mila soldati di stanza nella regione, riescano a vedere gli iraniani quando le mine le tolgono, e non quando le mettono. Non a caso molti hanno parlato, per questi fatti, di una riedizione dell’incidente del Golfo del Tonchino del 1964, l’attacco mai avvenuto che il presidente Johnson usò come scusa per ottenere dal Congresso il via libero alla guerra del Vietnam. Insomma, tra Vietnam, Iraq 2003 e Iran 2018 gli Usa sembrano non perdere il vizio. D’altra parte anche la disdetta dell’accordo sul nucleare iraniano decisa da Donald Trump nel 2018, era basata su una pura decisione politica, non sui fatti. Trump (con Arabia Saudita e Israele) diceva che l’Iran mentiva e non rispettava i patti, il resto del mondo diceva l’esatto contrario. Se la superpotenza Usa vuole fare una cosa, non c’è nessuno che possa impedirglielo, ecco tutto.

Nel caso dell’Iran, però, sarà meglio che qualcuno consigli cautela ai falchi di Washington. Una spedizione armata non sarebbe una specie di passeggiata come quella contro l’Iraq di Saddam Hussein, diviso all’interno e con sciiti e curdi già ostili al tiranno. L’Iran è uno dei pochi veri Stati-nazione del Medio Oriente, accanto solo a Egitto e Turchia. La sua popolazione (molto giovane: il 40% ha meno di 24 anni) ha un forte spirito patriottico e vive quanto dicevamo, cioè la disdetta unilaterale da parte degli Usa dell’accordo sul nucleare, come un puro sopruso imperialistico. Morirebbero per gli ayatollah, i giovani iraniani? Certo non tutti, soprattutto tra i borghesi delle grandi città. Ma quelli delle campagne povere, da sempre privilegiati dall’intervento statale nell’economia, probabilmente sì. Le forze armate iraniane, inoltre, sia l’esercito sia i pasdaran, hanno maturato negli anni una notevole esperienza.

Certo, la macchina militare americana è in grado di travolgere qualunque avversario. Ma a che prezzo? E con quale risultato? Le fantasticherie sulle magnifiche sorti e progressive di democrazia e libertà, dopo i disastri consecutivi di Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, non attaccano più. Avremmo il solito cumulo di cadaveri e di macerie, ecco tutto. Non è obbligatorio essere pessimisti e disegnare scenari di guerra. È possibile che tutto rientri in una strategia Usa per aumentare sempre più la pressione sull’Iran, nella speranza che da Teheran giungano segnali di cedimento (ma perché dovrebbero, se il Paese ha resistito a un embargo durato dal 1979 al 2015) o di rivolta (ma ci crediamo?). In ogni caso è chiaro che la triangolazione Usa-Arabia Saudita-Israele ha deciso di ridisegnare il Medio Oriente. E la prospettiva non è di quelle che lasciano tranquilli.

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