I fronti aperti
tra alleati di Governo

Era facilmente prevedibile che l’avvicinarsi delle elezioni regionali e soprattutto europee avrebbe man mano acuito le diversità all’interno della maggioranza di governo tra i due partiti che la compongono: le difficoltà e la concorrenza tra Salvini e Di Maio non possono non far riemergere il fatto che M5S e Lega erano avversari fino a quando non stipularono il «Contratto» di governo. Si sono messi insieme per ragioni di stretta necessità tattica, e questo riaffiora ad ogni passo, tanto più ora che si dovrà stabilire chi merita il podio più alto tra i partiti italiani. Sono tante, come vedremo, le ragioni di questo continuo contrasto ma adesso si parla soprattutto della vicenda giudiziaria che riguarda Salvini nelle sue vesti di ministro dell’Interno e gli immigrati a suo tempo trattenuti a bordo della nave militare italiana Diciotti.

È un caso che sta mettendo in torsione leghisti e grillini. Fino all’altro giorno Salvini sembrava intenzionato a farsi processare: sarebbe stato, si ragionava, un grande momento di propaganda mediatica. Il M5S veniva così sottratto ad ogni imbarazzo: da sempre i grillini votano a favore delle richieste di autorizzazione a procedere presentate dai giudici contro i politici. Poi però Salvini ha cambiato idea: non vuole più il processo. E spiega perché: perché i suoi comportamenti rispondono ad un interesse generale dello Stato e ad una precisa scelta collegiale di governo.

Dunque chi condivide entrambi deve votare contro la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania. Ed è qui che il M5S va in confusione: che si fa? Se vota sì, è coerente con se stesso ma contraddice la linea politica del governo che Salvini ritiene di incarnare. Se vota no si espone alla rivolta dei militanti che chiedono coerenza. È chiaro che votare sì significa rompere con Salvini e far cadere il governo; votare no salva il governo ma «perde» il Movimento. Di Battista ha dettato subito la linea: si vota sì al processo, però dicendo che non è giusto che Salvini venga accusato per una responsabilità collettiva. Un modo che vorrebbe salvare capra e cavoli ma mette Di Maio in una condizione di estrema difficoltà. Aspettiamo gli sviluppi. Ma, come dicevamo, sono tanti i motivi di contrasto. Il penultimo è quello sul ritiro dei nostri soldati in missione in Afghanistan. Annunciato dalla ministra della Difesa Trenta tra gli applausi grillini (sempre contrari), ha suscitato le proteste del ministro degli Esteri Moavero Milanesi (non informato) e della Lega, ostile a gesti unilaterali. Conte ha dovuto emettere un comunicato equilibrista che sostanzialmente consacra lo stallo: non ce ne andiamo e non restiamo. I militari e la Nato sono, per dir così, perplessi.

E che dire delle Grandi opere? Salvini, guai giudiziari permettendo, vuol andare a Chiomonte, il cantiere della Tav più volte assaltato dai contestatori tra i quali l’attuale viceministro all’Economia Castelli del M5S. Un modo per dire nel modo più esplicito possibile che la Lega vuole che il cantiere prosegua ed è pronta a tirar fuori le carte che sbugiardano la ormai leggendaria relazione costi-benefici che il ministro Toninelli tiene chiusa nei cassetti ma che tutti sanno essere contro l’Alta velocità. Ma manca in questo elenco di doglianze la battaglia delle battaglie di cui nessuno per il momento parla ma che presto esploderà. Entro il 15 febbraio il governo si è impegnato a prendere una decisione sull’autonomia chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (cui presto si accoderanno Piemonte, Liguria, Toscana, Marche e Umbria). Decisissima ad ottenere soddisfazione la Lega, sempre più contrario il M5S il cui elettorato, soprattutto meridionale, vede questo come una «secessione dei ricchi». Ce ne sarebbe abbastanza per una lotta senza quartiere tra partiti avversari. Figuriamoci per degli «alleati» di governo.

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