I militari italiani in Africa
A quale fine?
Ma nell’ultimo vertice bilaterale a Napoli, il 27 febbraio scorso, il presidente francese Emmanuel Macron aveva chiesto espressamente al governo Conte truppe da combattimento da inviare nel Sahel per contrastare i jihadisti. Nel frattempo in Mali è andato in scena un colpo di Stato: Ibrahim Boubacar Keita, che era presidente dal 2013, si è dimesso e ha sciolto il Parlamento, dopo essere stato portato in un campo militare da membri dell’esercito che ha preso il potere promettendo nuove elezioni e rispetto degli impegni internazionali.
Il quadro quindi cambia, in primis per la Francia, grande alleata del leader deposto. Aveva rafforzato la sua presenza militare nella missione Barkane condotta in cooperazione con altri cinque Paesi - Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger - aumentando gli effettivi a 5.500, una forza importante ma non ancora sufficiente - in un’area vasta e ostile tra Mali, Niger, Burkina Faso - a sconfiggere diversi gruppi jihadisti, da Al Qaida nel Maghreb allo Stato islamico, da Boko Haram ai Tuareg malaiani ribelli nel Nord, essenziali per il controllo delle vie del commercio di armi e del narcotraffico. Parigi, che da quelle parti ha cospicui interessi nazionali da proteggere, ha così allestito una seconda missione (Takuba) alla quale parteciperà appunto l’Italia, già presente con suoi militari in Mali e in Niger in due missioni Ue e in quella dell’Onu, Minusma (di peacekeeping con 12 mila effettivi), sempre in Mali. Il colpo di Stato e l’ambiguità del nostro ruolo (combattere o formare soldati?) pongono seri interrogativi sull’utilità dell’impegno (se non per fare un favore a Macron?).
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