I militari italiani in Africa
A quale fine?

a novità avrebbe meritato un dibattito pubblico e politico e invece è passata via in sordina. Del resto quando c’è di mezzo la politica estera l’Italia sbadiglia, mentre s’infiamma su ogni questione nazionale, salvo poi lamentarsi delle migrazioni, prodotto di quei mondi ai quali riserviamo uno sguardo annoiato quando non indifferente. Il Consiglio dei ministri ha recentemente approvato, con il placet del Parlamento, la delibera che proroga le missioni militari all’estero: sono 41, per una spesa complessiva di un miliardo e 161 milioni. In realtà è più che una proroga perché la delibera prevede nuove missioni con un incremento dei costi di 12 milioni: una in particolare riguarda il Mali, con l’invio di 200 soldati, 20 mezzi terresti e otto velivoli. Il compito ufficiale del nostro contingente sarà di assistere e addestrare le forze locali.

Ma nell’ultimo vertice bilaterale a Napoli, il 27 febbraio scorso, il presidente francese Emmanuel Macron aveva chiesto espressamente al governo Conte truppe da combattimento da inviare nel Sahel per contrastare i jihadisti. Nel frattempo in Mali è andato in scena un colpo di Stato: Ibrahim Boubacar Keita, che era presidente dal 2013, si è dimesso e ha sciolto il Parlamento, dopo essere stato portato in un campo militare da membri dell’esercito che ha preso il potere promettendo nuove elezioni e rispetto degli impegni internazionali.

Il quadro quindi cambia, in primis per la Francia, grande alleata del leader deposto. Aveva rafforzato la sua presenza militare nella missione Barkane condotta in cooperazione con altri cinque Paesi - Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger - aumentando gli effettivi a 5.500, una forza importante ma non ancora sufficiente - in un’area vasta e ostile tra Mali, Niger, Burkina Faso - a sconfiggere diversi gruppi jihadisti, da Al Qaida nel Maghreb allo Stato islamico, da Boko Haram ai Tuareg malaiani ribelli nel Nord, essenziali per il controllo delle vie del commercio di armi e del narcotraffico. Parigi, che da quelle parti ha cospicui interessi nazionali da proteggere, ha così allestito una seconda missione (Takuba) alla quale parteciperà appunto l’Italia, già presente con suoi militari in Mali e in Niger in due missioni Ue e in quella dell’Onu, Minusma (di peacekeeping con 12 mila effettivi), sempre in Mali. Il colpo di Stato e l’ambiguità del nostro ruolo (combattere o formare soldati?) pongono seri interrogativi sull’utilità dell’impegno (se non per fare un favore a Macron?).

Ricordiamo che Parigi fu il motore della guerra a Muammar Gheddafi nel 2011, consegnando la Libia al caos. E non solo la Libia. Le frontiere del Sahel sono sprofondate, i Paesi della regione sono precipitati nell’instabilità, il jihadismo si è impadronito con gli attori locali, come i Tuareg ribelli, dei lucrosi e illegali commerci, lo Stato Islamico ha sequestrato intere province - una violenza che ha generato migliaia di morti e almeno 400 mila profughi - mentre il futuro della Libia verrà deciso da Turchia e Russia. Il Sahel è anche zona di transito dei migranti diretti in Europa ma fra i compiti delle varie missioni militari non c’è il governo delle migrazioni. La politica estera dovrebbe essere definita dagli interessi nazionali e dagli ideali, ma i nostri quali sono? In Africa siamo presenti solo con 400 militari in Libia per la protezione del nostro ospedale a Misurata, ormai sotto utilizzato: nella stessa città la Turchia sta impiantando le sue basi militari nel porto più strategico del Paese.

Altri 290 sono in Niger, nell’ambito di una missione la cui utilità è discutibile. Pochi soldati equivale a contare meno nei tavoli dove si prendono le decisioni. Sarebbe utile se in questi teatri ci facessimo promotori di un’incisiva mediazione internazionale (una volta era la posizione nella quale eravamo più abili). La comunità internazionale e soprattutto l’Unione europea non devono dare l’impressione di delegare la soluzione del problema, nemmeno dal punto di vista militare, alla Francia. E poi ci sono altri fattori da promuovere: riportare lo Stato, cioè le scuole, i tribunali e i presidi sanitari. Per evitare che la bomba a orologeria del Sahel ci esploda in casa.

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