I rattoppi non bastano per la parità al lavoro

ITALIA. Ieri, su questo giornale, l’avvocata Roberta Ribon ha citato il Rapporto 2024 delle Organizzazioni della società civile italiana, realizzato annualmente per la Cedaw (la Convenzione contro tutte le discriminazioni contro le donne realizzata nel 1979 dall’Onu) dove, al punto 7, si afferma che «lo Stato italiano non ha seguito un approccio sistemico e strutturale per colmare il divario di genere» nei vari campi, costruendo «politiche strategiche» ma che «persiste l’inesorabile tendenza» a reinterpretare «le politiche di pari opportunità come politiche di famiglia e maternità».

Cose da donne, insomma, dove si applicano «toppe» qua e là e i fondi si trovano e si allocano secondo le spinte variabili dell’opinione pubblica. Ma dove non si vuole sollecitare e sostenere un cambio culturale complessivo, l’unico che, coinvolgendo uomini e donne, può portare un miglioramento duraturo. Una miopia storica che ha portato l’Italia a uno spreco insensato di risorse umane e cervelli, a un mancato sviluppo economico e al gelo demografico. Tutti dati noti, storicizzati nelle statistiche e nelle ricerche di settore. Inscalfibili.

Se si chiede alle giovani donne «perché» il lato privato e riproduttivo della loro vita si stabilizzi con tempi biblici, allargano le braccia e spiegano che devono sapere di più per avere meno. E quindi tutto si allunga: anni di studio, tempi di ricerca del lavoro, raggiungimento di un reddito dignitoso, visto che la forbice dei salari tra maschi e femmine è intorno al 20% a parità di competenze. Sta emergendo anche la coppia pendolare, che lavora in città diverse e convive part time. A volte c’è anche un figlio. Tutte esperienze delle quali questa generazione di donne farebbe volentieri a meno. Chiedono tutte che il congedo parentale per il padre diventi obbligatorio, per condividere e allungare i tempi di accudimento. Ed evitare l’assenza protratta dal lavoro, sempre rischiosa. Se resta facoltativo, il congedo continuerà ad essere poco utilizzato dai neopadri. Per l’Inps, nel 2022 ne hanno beneficiato 270.989 donne per una media di 54 giorni e 77.875 uomini per 23 giorni.

Quanto al lavoro autonomo, le imprese a conduzione femminile (in Bergamasca sono oltre 17mila) sono in aumento. Ma in caso di figli, la situazione si complica. Per l’Inps, al congedo parentale sono ricorse solo 1.742 donne autonome per 18 giorni di media e 480 uomini per 15 giorni. Una boccata d’aria viene dalla possibilità, soprattutto nei settori digitale e servizi, del lavoro a distanza, che permette di accudire senza ridurre il reddito, aspettando che si liberi il mitico posto al nido. C’è anche la «scorciatoia nonni»: economica, H24 e causa di una bella fetta di pensionamenti e prepensionamenti delle donne. Che così diventano parte del problema e non della soluzione. Perché se c’è la nonna a tempo pieno, non servono i servizi.

Nidi e scuole d’infanzia non solo sono un appoggio, ma hanno un valore educativo, perché si cresce meglio in gruppo. Nella percezione che una città ha del suo futuro, vedere cittadini piccolissimi guidati a sentire la città anche loro, dà speranza. Rifugiarsi nel familismo significa invece, per le donne, rimbalzarsi i pesi fra loro. Le donne della generazione di mezzo, strette tra lavoro esterno, lavoro domestico poco condiviso, lavoro di cura bidirezionale (figli e genitori anziani), lo sanno bene.

Anche a questo è collegato l’abbandono del lavoro retribuito? Tre su quattro casi di dimissioni volontarie in provincia di Bergamo, secondo i dati 2022 dell’Ispettorato nazionale del lavoro, sono da parte di lavoratrici. È probabile che sommando fatica e retribuzioni basse, le donne a metà del percorso lavorativo, con magari pochi anni di contributi, lascino il lavoro. Perdendo però ogni speranza di autonomia futura. Tra chi abbandona il lavoro c’è anche qualche giovane mamma, per stanchezza, desiderio di occuparsi solo dei figli, pressioni del compagno. Niente di male, se si riesce a renderla una scelta reversibile in caso di necessità, pericolosa se definitiva.

Il gender gap non è una questione privata, ma pubblica e di sistema, perché tutti i livelli della diseguaglianza sono collegati. Per avere un riequilibrio deve essere coinvolto anche chi dal presente sistema trae o crede di trarre vantaggi. Occorre perciò costruire una diversa organizzazione sociale, che si dimostri più vantaggiosa per tutti e possa perciò affermarsi come cultura. Il lavoro è un nodo centrale della rete sociale, capace di influenzare molti altri mondi vitali. Riprendiamo da lì, dove l’innovazione è già di casa.

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