Il bis di Gori, un ribaltone
che parte da lontano

Politicamente parlando, l’ultima volta che accadde fu un’era geologica fa. Era infatti il 24 maggio del 1985 quando il democristiano Giorgio Zaccarelli riuscì a farsi eleggere per la seconda volta consecutiva a Palazzo Frizzoni. Da allora ad oggi non c’è più riuscito nessuno, ma non è soltanto per questo che la rielezione di Giorgio Gori a sindaco di Bergamo può considerarsi, senza alcuna enfasi, un risultato storico. Al di là del fatto che fino al 1993 il sindaco veniva eletto dal Consiglio comunale, e non direttamente dai cittadini, a fare la differenza è il clima politico in cui è maturato il bis, nettamente ostile al sindaco uscente. Che per lui la strada di un ritorno a palazzo fosse paurosamente in salita era noto da tempo, ancor più dopo la bruciante sconfitta alle Regionali del 4 marzo 2018, quando il divario tra il candidato della Lega alla guida della Lombardia, Attilio Fontana, e Giorgio Gori fu davvero umiliante, oltre il 20 per cento.

Ma quando nella notte tra domenica e lunedì è risultata chiara a tutti la schiacciante vittoria della Lega nelle Europee, le speranze di riuscire ad andare anche solo al ballottaggio con il leghista Giacomo Stucchi sembravano ridotte al lumicino, seppure in città il movimento di Salvini non sia riuscito ad andare oltre il 32,41%, con il Pd primo partito al 32, 64% delle preferenze. Bastava un colpo d’occhio alla cartina geografica della Bergamasca per vedere come la Lega avesse letteralmente fatto man bassa di voti «europei» in 240 dei 243 Comuni che compongono la provincia: oltre a Bergamo, non hanno risposto all’appello del ministro dell’Interno solo il Comune di Valnegra e quello di Oltressenda Alta. Insomma, che il vento tirasse in quella direzione pure da noi era fin troppo evidente e, per molti versi, anche scontato.

Ma Gori, che in sé stesso non ha mai smesso di credere, la pensava diversamente, pur sapendo che rispetto alla primavera del 2014 non poteva certo contare sul sostegno del Partito democratico, all’epoca al suo massimo storico, con oltre il 40% delle preferenze degli italiani. Anzi, stavolta era esattamente il contrario: l’effetto traino era tutto appannaggio di Stucchi. Cosa, allora, ha consentito di ribaltare il pronostico? Cosa ha reso possibile che a Bergamo, come in altri paesi della Bergamasca, il nome di Salvini finisse solo nell’urna delle Europee ma non in quelle delle Amministrative? Innanzitutto l’attivismo di Gori, e non solo in campagna elettorale (che peraltro aveva di fatto iniziato nell’estate di due anni fa, in vista dell’appuntamento regionale). Lo si può accusare di tutto, ma non di essere stato a Palazzo Frizzoni con le mani in mano. Certo è stato anche abile nel cogliere gli esiti di iniziative portate avanti dai suoi predecessori nel tempo, ma a sua volta ne ha attivate altre i cui frutti saranno raccolti da chi gli succederà. Le rotte di Orio e il parking alla Fara sono state le scelte più contestate, ma evidentemente non da una fetta di popolazione tale da riuscire a punirlo nel segreto dell’urna.

Per il resto, sembra aver pagato la sua voglia di «svecchiare» la città e di renderla più dinamica di quanto non sia oggi, lavorando su un «ventaglio sociale» molto più ampio di quello rappresentato dal solo elettorato di Sinistra. Insomma, il «contatto» con la città l’ha sempre cercato, senza mai evitarlo anche quando confrontarsi non era la cosa più semplice da fare. Dietro l’angolo si agita ora lo spettro delle «Politiche», ma è davvero improbabile che il rieletto sindaco si faccia attirare dalle «sirene» romane, nonostante il Pd lombardo - con le affermazioni di Giuseppe Sala a Milano prima, di Emilio Del Bono a Brescia poi e dello stesso Gori ieri a Bergamo - possa pretendere una certa attenzione per come ha saputo contrastare il dilagare della Lega.

Per essere onesti, tuttavia, i meriti di Gori finiscono anche dove iniziano i demeriti di Stucchi, o di chi per lui. Il più grande errore del candidato leghista è stato quello di ritenere certo l’effetto trascinamento di Salvini, lo stesso che aveva consentito a Fontana di «stracciare» Gori pur essendo subentrato a Maroni soltanto poche settimane prima del voto. Ma storicamente le elezioni amministrative hanno una caratterizzazione propria rispetto alle «Politiche» e alle «Europee», dovendo l’elettore scegliere un candidato le cui decisioni incidono davvero, e subito, sulla vita di tutti i giorni. Illuso dall’effetto trascinamento, Stucchi – ed è questo il suo secondo errore – è stato quasi sempre a guardare in questa campagna elettorale, comportandosi come il ragno in mezzo alla tela in attesa della propria vittima. Il poco dinamismo non ha giovato e a molti è apparso come la paura di confrontarsi con un rivale ben più esperto di lui sui temi della città e della comunicazione. In verità la sconfitta di Stucchi nasce anche dentro le mura leghiste e quelle dei propri alleati. Inviso a Salvini per la sua stretta vicinanza a Bossi prima e a Maroni poi, la scelta di Stucchi ha avuto il via libera dal «lider maximo» soltanto dopo che ogni tentativo di trovare un’alternativa era risultato vano. Anzi c’è chi dice che, alla fine, Salvini avrebbe «digerito» persino la mancata presa di Bergamo pur di liberarsi una volta per tutte dell’antico rivale: da qui l’ordine di scuderia consegnato ai fedelissimi orobici di ignorare Stucchi (ordine eseguito alla perfezione da tutti). E se non era per la questione Zingonia, difficilmente Salvini sarebbe venuto da queste parti. Quanto a Forza Italia, proprio un alleato di ferro non deve essere stato, se una buona parte dei suoi iscritti ha preferito votare il sindaco uscente. Il fuoco amico, impossibile da evitare, è sempre il più pericoloso: ecco perchè è giusto riconoscere a Stucchi l’onore delle armi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA