Il caso Bari, l’alleanza Pd-5 Stelle al lumicino

ITALIA. Il rebus barese rischia di travolgere definitivamente la prospettiva di un centrosinistra unito. E forse la cosa è già successa portandosi dietro un possibile leader nazionale del Pd, Antonio Decaro, fino a poche settimane fa lo stimatissimo sindaco della «rinascita legale» di Bari.

Dopo il nuovo coinvolgimento giudiziario di una esponente della giunta regionale guidata da Michele Emiliano - che segue indagini sul Comune e arresti - Giuseppe Conte ha fatto saltare le primarie che avrebbero dovuto stabilire chi dovesse essere il candidato unico di Pd e M5S alle prossime (giugno) comunali di Bari. Questa azione improvvisa ha provocato la dura reazione della segretaria del Pd Schlein («Conte sleale») e la pratica conseguenza che, senza primarie, entrambi i partiti si arroccano sul loro candidato: Vito Leccese per i democratici e Michele Laforgia per i grillini-contiani. Pare di capire che nessuno dei due abbia voglia di fare un passo indietro per far passare un terzo nome di «pacificazione», e del resto si capisce: la pacificazione non è affatto all’orizzonte. L’ipotesi più concreta è che gli alleati più litigiosi del mondo (dopo Renzi e Calenda, s’intende) andranno ciascuno per la propria strada aprendo al centrodestra la concreta possibilità di conquistare il Comune dopo decenni di opposizione.

Sempre che si voti, però. Nel palazzo comunale sta celermente lavorando la Commissione d’inchiesta inviata dal Viminale per valutare il possibile scioglimento dell’Amministrazione e del Consiglio per infiltrazione mafiosa: gli arresti e le inchieste giudiziarie che riguardano soprattutto le aziende municipalizzate hanno spinto Piantedosi ad un’iniziativa dirompente che il sindaco Decaro e il Pd hanno considerato «un atto di guerra alla città». Ma per quanto le proteste possano essere alte e forti, la Commissione ha il potere di proporre al governo nazionale lo scioglimento e quindi il commissariamento del Comune per il tempo che si rendesse necessario. Quindi, addio elezioni. E questo è il dato surreale del pasticcio barese: Pd e M5S se le stanno dando di santa ragione per una contesa che potrebbe non esserci ma che lascerebbe il centrosinistra completamente a terra, con Conte e Schlein che si rinfacciano reciproca irresponsabilità, con vertici locali dei due partiti che si guardano come cani e gatti.

Del resto, il cosiddetto «vento sardo», la vittoria della grillina Todde contro il meloniano Truzzu, da un pezzo è sparito: si è fermato sulle montagne abruzzesi con la vittoria del centrodesta e non è mai arrivato in Basilicata. Ora il crack barese è la quasi-definitiva sanzione del fatto che Pd e M5S non riescono ad allearsi. Le manovre di Conte dimostrano che egli si sente in grado di imporre le sue condizioni ultimative e la segretaria Schlein è sempre più in difficoltà con lui: dopo i compromessi che le sono stati rinfacciati dai compagni di partito, ora è passata alle parole grosse ma non riesce a sfuggire all’impressione di essere imprigionata dalla spregiudicata tecnica dell’avvocato del popolo. Conte ha due obiettivi: superare il Pd e far accettare la propria candidatura a presidente del Consiglio. Tutto è subordinato a raggiungere questo traguardo. Il Pd che per risalire la china e battere le destre ha come unica possibilità quella di allearsi col M5S (chi altri c’è?) non ha margini di manovra. E questo crea non pochi malumori nei confronti della segretaria che del resto si è fatta eleggere proprio per realizzare l’alleanza con i pentastellati.

Ecco perché il caso di Bari, reso ancora più intricato dai contorti arabeschi della politica pugliese, esce dalla sua dimensione locale e dimostra che attualmente le possibilità di un’alleanza coesa e strutturale tra i due soggetti più forti del centrosinistra è ridotta al lumicino.

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