Il ceto medio
torna a sorpresa

La tavola economica, si sa, non è particolarmente imbandita. Questa volta, però, registra il ritorno di un commensale di tutto riguardo: il ceto medio, il cui destino è il problema cruciale della democrazia e con il quale bisogna sempre fare i conti. In modo sorprendente se non in controtendenza, visti i tempi cupi, la buona notizia viene dalla nona edizione dell’indagine sul risparmio e le scelte finanziarie degli italiani di Intesa Sanpaolo e del Centro Luigi Einaudi, che restituisce l’immagine di un Paese dal ritrovato ottimismo. Da 10 anni a questa parte non era mai successo che un milione e 300 mila famiglie rientrassero nel ceto medio o vi arrivassero per la prima volta: il 57,5% percepisce un reddito fra i 1.500 e i 3 mila euro al mese e lo ritiene sufficiente.

Si ribadisce, poi, lo storico punto di forza di un Paese pur zavorrato dal debito pubblico record: la propensione delle famiglie al risparmio con il 52% di italiani-formica, una quota che spicca il volo dal minimo storico (39%) toccato nel 2013. In cima l’inossidabile Nordest, che la fa da padrone in tutti gli ambiti, mentre la tendenza agli investimenti si conferma prudente e attenta alla sicurezza. Il mattone sovrasta ogni altro impiego di liquidità e, con il 63% dei patrimoni rappresentato da case, il 2019 incassa un primato di proprietari. Una sola statistica non fa primavera, non raddrizza il legno storto dell’inequità e delle disuguaglianze.

Questo spaccato inedito, l’esito anche di un trascorso riformismo, è difficile da capire in un contesto in cui lo psicodramma italiano ci ha raccontato, e ci racconta, un’altra storia: due terribili recessioni, poi rientro, ripresina, recessione tecnica, recupero finale, e ora siamo più sul versante stagnazione. E tuttavia c’è un Paese che sta alla stanga, risponde alla chiamata in modo responsabile, che procede allineato e coperto: un’Italia nascosta dentro i capannoni, forse sconosciuta, scarsamente considerata, in palese contrasto con le visioni catastrofiste che oggi sembrano talmente rassicuranti da apparire conformiste. Pezzi di società che non si chiamano fuori, che guardano al futuro con una certa fiducia. Un quadro che contrasta con la descrizione negativa imperante, con la rappresentazione che viene data della nostra economia. Come se quello che ci siamo raccontati in questi anni tormentati, e quel che ci è stato propinato dalle nuove famiglie populiste, non fosse del tutto vero o comunque non oro colato. Perché in fondo il big bang politico, il ribaltone dell’uomo occidentale, da Trump a Salvini e a Di Maio, ha trovato nell’impoverimento del ceto medio la causa principale e la fonte retorica e simbolica. Per cui è necessario chiedersi se una lettura economica sia sufficiente e adeguata a sintetizzare tutte le possibili spiegazioni di un fenomeno che ha l’aria di durare a lungo. E se non sia il caso di prestare più attenzione alla dimensione irrazionale ed emotiva, dei rancori di varia natura, dei sentimenti insondabili che neppure i sondaggi riescono a raggiungere: quel che gli specialisti chiamano post-materialismo.

Con il ceto medio è vietato scherzare, perché l’espandersi dei titolari di una vita dignitosa ha garantito benessere collettivo e coesione sociale. I mediani sono la fanteria della democrazia e quando si sentono ai margini, come insegna il ‘900 italiano, solitamente combinano guai. Negli anni ’80 il ceto medio italiano – il corpaccione centrale della società, il nostro vicino di casa, più o meno tutti noi – arrivò ad essere l’85% del Paese. Poi è iniziato un processo carsico che ha eroso la democrazia da dentro: troppa gente non cresceva, ma declinava nella scala sociale, scivolando nel declassamento, in uno scontento fegatoso. La classe media ha sofferto e ha passato un brutto momento, ma sono stati i poveri ad aver patito di più in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Tuttavia, senza generalizzare il peso di una sola statistica per quanto autorevole, la riemersone in positivo di uno spaccato italiano, proprio nel decennio che ha stravolto stili di vita e relazioni comunitarie, non si piglia con la sua traduzione politica. Non si coglie il nesso tra un Paese che investe sull’ottimismo della concretezza e una politica maggioritaria, la cui fortuna è direttamente proporzionale allo sfruttamento intensivo delle paure che affollano sia il reale sia l’immaginario collettivo: il pessimismo come formula vincente. Ma soprattutto questo abbozzato ritorno dell’ala marciante italiana non ha un equivalente politico: ad una relativa solidità in recupero del ceto medio non corrisponde un’interfaccia partitica capace di riassumere in termini interclassisti quel che si muove nelle vene profonde, e talvolta non indagato, nel corpo centrale della società. I mediani del vivere quotidiano paiono orfani politici, che però ci sono sempre e lottano con noi. Capaci di stupire: e chi l’avrebbe mai detto?

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