Il debito pubblico
e gli aiuti della Bce

Esistono alcune ragioni razionali e altre pretestuose per sostenere che la Banca centrale europea (Bce) non debba archiviare troppo in fretta
il sostegno monetario straordinario all’economia dell’Eurozona (e dunque dell’Italia) nell’attuale congiuntura economica. Iniziamo dai retropensieri pretestuosi che faremmo bene a togliere subito dal tavolo della discussione. I decisori politici italiani dovrebbero realizzare che le politiche monetarie non convenzionali, avviate con il «whatever it takes» pronunciato nell’estate del 2012 dall’allora Presidente della Bce Mario Draghi e rinnovate per arginare i contraccolpi della pandemia, non possono diventare l’eterna panacea per un debito pubblico in costante espansione e un ritmo di crescita strutturale in continuo calo.

A rendere impossibile - o comunque non auspicabile - uno scenario simile ci sono innanzitutto le «leggi di gravità» della scienza economica, poi le inclinazioni di altri Paesi europei meno favorevoli a una Bce espansiva (leggi: la Germania), infine il principio democratico dell’«accountability» nei confronti di cittadini e future generazioni che meritano di vivere in condizioni economiche il più possibile sostenibili e floride. Fare piazza pulita dell’illusione - esplicita o implicita - che la politica monetaria debba curare da sola i mali atavici del nostro Paese rafforzerebbe tra l’altro le ragioni razionali che militano a favore di una Bce interventista, anche in un momento in cui Oltreoceano la Fed ha intrapreso la strada della restrizione monetaria.

Tra le due sponde dell’Atlantico, infatti, la ripresa si sta materializzando con ritmi e modalità diverse, come ha spiegato di recente Laurence Boone, capoeconomista dell’Ocse (l’organizzazione internazionale dei 36 Paesi maggiormente sviluppati del pianeta). Nell’Eurozona e negli Stati Uniti, il Pil è oggi rispettivamente allo stesso livello e sopra il livello della fine del 2019, in entrambi i casi grazie a politiche anti-crisi decisamente proattive. Mentre nell’Eurozona l’obiettivo principe di tali politiche è stato impedire i licenziamenti (attraverso schemi di integrazione salariale o addirittura con il blocco legislativo dei licenziamenti), negli Stati Uniti l’interruzione dei contratti di lavoro è stata molto più praticata e la disoccupazione ha raggiunto picchi elevati prima di essere oggi parzialmente riassorbita. Washington ha preferito piuttosto incrementare il reddito degli individui in difficoltà con assegni straordinari e sgravi fiscali, generosi al punto che il reddito disponibile degli Americani è cresciuto in media più di quello degli Europei. Ecco perché, secondo Boone, «negli Stati Uniti i consumi a livello aggregato sono tornati alla tendenza pre-crisi e la spesa in beni è cresciuta superando di molto la dinamica pre-crisi.

Nell’Eurozona invece i redditi sono rimasti grossomodo allo stesso livello pre-pandemia (visto che gli stipendi sono stati più o meno salvaguardati per la maggior parte dei lavoratori grazie a meccanismi tipo la cassintegrazione), e i consumi non sono ancora al livello pre-crisi». Da qui discende una differenza nell’attuale andamento dell’inflazione fra i due blocchi: i prezzi in entrambe le aree crescono a causa dei colli di bottiglia dell’offerta (si pensi al problema dell’interruzione delle catene globali del valore con l’Asia), ma mentre negli Stati Uniti il surriscaldamento è alimentato soprattutto dalla combinazione di un generoso sostegno al reddito dei cittadini con un’offerta che fatica a stargli dietro, nell’Eurozona il principale motivo dell’inflazione risiede nei prezzi dell’energia alle stelle. Conclusione di Boone: «Differenti driver dell’inflazione richiedono differenti risposte di politica economica: mentre gli Stati Uniti dovrebbero rimuovere gradualmente le scelte più espansive (come sta già avvenendo sul fronte fiscale e come annunciato su quello monetario), l’Eurozona a livello aggregato non si è spinta a eccessi paragonabili e dunque ha esigenze diverse di politica economica».

Nel nostro continente, l’occupazione e la partecipazione al mercato del lavoro sono ancora più deboli che in America, il Pil e il reddito hanno raggiunto i livelli pre crisi ma non ancora le tendenze di allora. Dunque, con buona pace dei cosiddetti «falchi» monetari, ci sono motivi più che razionali perché la Bce - come dichiarato ieri dalla presidente Christine Lagarde - non segua troppo precipitosamente la Fed sulla strada della stretta monetaria. Per il bene di tutta l’Eurozona, Italia inclusa.

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