Il destino dell’Europa nel pensiero di Delors

MONDO. Il modo per rendere visibile il lascito di Jacques Delors, uno dei padri dell’euro, è procedere nell’integrazione politica del vecchio continente: più condivisione, meno egoismi.

L’ultimo dei grandi europeisti si chiedeva in un’intervista del 2008: i responsabili della cosa pubblica saranno capaci di confrontarsi su ciò che li divide per trovare un «compromesso dinamico, a beneficio di tutti?». In realtà aveva già risposto con la sua biografia: nessun europeo, scriveva l’«Economist» anni fa, aveva esercitato un impatto così grande sull’Europa occidentale come questa intelligenza francese alla guida della Commissione dal 1985 al 1995.

La stagione d’oro, la più promettente peraltro sorretta da una classe dirigente di indubbio livello, poi sottoposta a miopi revisionismi nazionalistici. Gli anni del balzo in avanti, un fervore operoso per il domani: moneta unica, crollo del Muro, riunificazione tedesca, fine dell’Urss, fase espansiva della globalizzazione. Mai in tempi recenti, assistendo all’irrompere di nuove popolazioni, si era riusciti a produrre così tanta storia e a consumarla. Euforia, ma anche il ritorno del demone della guerra, perché il ciclo bellico nell’ex Jugoslavia ridimensionava l’ottimismo di chi riteneva si fosse giunti alla «fine della Storia», cioè al trionfo duraturo di una liberaldemocrazia senza nuovi competitori. Guardando al lato ricostruttivo, c’era una visione oltre il contingente, un pensiero che osava l’inimmaginabile.

L’Europa che conosciamo nasce da quel laboratorio, dal Libro bianco al Trattato di Maastricht. L’uomo giusto al posto giusto per conciliare e riconciliare, per rendere adeguato ai tempi il metodo comunitario era Delors, personalità che presidiava più confini: cattolico (formatosi nella Gioventù operaia cristiana con la quale manterrà legami per tutta la vita) e socialista, sindacalista e tecnocrate, politico e insieme distante dalle convenzioni partitiche. In quanto a sensibilità di frontiera culturale, era il più adatto a capire le ragioni degli altri: Mitterrand che si vedeva attorniato da una Germania unificata, Kohl che abbandonava il marco, simbolo del benessere tedesco. Anche la Thatcher, a modo suo, ha partecipato all’avventura. La formula di Delors per la costruzione europea rimane nel bagaglio ideale della convivenza civile, una sintesi che ritroviamo nelle sue Memorie (Rubbettino, 2009): la competizione che stimola, la cooperazione che rafforza, la solidarietà che unisce, la diversità da tutelare. Regole del gioco, sosteneva, accettate da tutti e sotto l’imperio del Diritto.

L’integrazione europea come il solo successo pacifico di ampie proporzioni, una strategia della pace che non può avere successo in ogni circostanza, dimostratasi tuttavia efficace nell’Irlanda del Nord e in alcune zone dei Balcani dopo gli «immensi fallimenti» tra il ’91 e il ’94. L’ostinazione sul sociale era la sua impronta per accompagnare il mercato. Sapeva che, nonostante i risultati ottenuti, si era entrati in una zona a rischio, fra smarrimento e turbolenze: siamo all’attualità. Dunque, porte aperte ai Paesi che vogliono entrare, ma valutando lo scarto fra aspettative e realtà: obiettivi ragionevoli.

Da qui l’idea delle «cooperazioni rafforzate», la possibilità per quei Paesi che se la sentono di esercitare un’azione d’avanguardia. Sbagliato contrapporre Stato-nazione e istituzioni comunitarie. Dare e ricevere. Questioni che si sono affacciate ieri, per poi essere cavalcate in maniera aggressiva oggi. Resta, all’ingresso dell’anno elettorale, il quesito che conta per il destino comunitario, suggerito da Delors: perché vogliamo vivere insieme e per quale ambizione europea.

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