Il diktat dei 5 Stelle, ma il voto fa paura

Giuseppe Conte si duole del fatto che i giornali e i social ormai lo abbiano soprannominato «l’uomo dei penultimatum». Purtroppo per lui però, quella delle minacce a vuoto sembra diventata una tattica abituale per l’ex presidente del Consiglio. Sono settimane che dal campo grillino si continua a rumoreggiare contro il governo. Conte un po’ ha incoraggiato la fronda, un po’ l’ha frenata; ha minacciato uscite dal governo, appoggi esterni, rotture clamorose; ha lasciato tutti in attesa del suo chiarificatore incontro con Draghi messo in agenda a seguito della baruffa sul presunto invito di quest’ultimo a Grillo perché si decida a disfarsi dell’«avvocato del popolo».

Il fatidico incontro si è svolto ieri ma si è concluso in quasi niente: i grillini confermano che vogliono restare nel governo però ribadiscono che si sentono «a disagio» e chiedono di cancellare il termovalorizzatore di Roma, difendono il reddito di cittadinanza e non deflettono dalla loro posizione sull’ecobonus: hanno consegnato una lista di richieste a Draghi che - promette - «ci penserà». Insomma, ancora un penultimatum contiano.

C’è da dire che prima Draghi e poi il Pd, dopo le più recenti lamentele grilline, avevano chiarito che se il M5S si prendesse la responsabilità di far cadere il governo mentre c’è il putiferio che sappiamo, non si farebbe altro che andare alle elezioni anticipate in tempi rapidissimi e che di «campo largo» Pd-M5S non si parlerebbe mai più.È bastato questo per gettare acqua sui bollori del partito «dell’uno uguale uno» in cui i parlamentari - sicuri in gran parte di vivere i loro ultimi mesi da rappresentati del popolo con stipendio accreditato sulle banche interne di Montecitorio e Palazzo Madama - vedono le urne come la peste. Il crollo elettorale del partito di Conte, e non più di Di Maio, è dato per scontato da tutti: non si ripeteranno le percentuali formato micron delle amministrative ma le previsioni danno un movimento intorno al 10% (dal 32% del 2018) e una truppa di eletti ridotta all’osso, anche per effetto della riforma voluta dai pentastellati di ridurre il numeri di deputati e senatori.

Così il panico di non riuscire nemmeno a conquistare il diritto alla pensione ha smaltito la voglia di uscire dal governo: il consiglio nazionale ha dunque confermato che «il Movimento resterà al governo». Ma, naturalmente, «a certe condizioni». Sta di fatto che il decreto Aiuti su cui Conte e compagni hanno non poche riserve sarà votato con la fiducia, cioè senza modifiche, e la cosa curiosa è che l’annuncio è stato dato in Aula dal ministro grillino per i Rapporti con il Parlamento. Conclusione: continuano i tuoni su nel cielo ma non piove mai. Draghi va avanti per la sua strada, un po’ confidando in questa inguaribile incertezza di un partito in crisi estrema, un po’ pensando che, con le emergenze gravissime cui tutti i governi del mondo devono fare fronte, sarebbe veramente bizzarro che l’Italia mandasse a casa il governo presieduto dal suo esponente più prestigioso e rispettato nel mondo.È la stessa speranza in realtà che nutrono tutti, e soprattutto i democratici. I quali però ormai si sono rassegnati ad archiviare la chimera del «campo largo» e dell’alleanza con il M5S il cui contributo elettorale - come si è visto alle recenti amministrative - è assai risicato se non addirittura controproducente. L’unica consolazione per Letta e Franceschini è che il campo del centrodestra - a oggi, sulla carta, il futuro vincitore delle elezioni - non è meno agitato e confuso. Lì però sembra che i malumori dei leghisti desiderosi di mandare a casa Draghi si siano calmati dopo un lungo colloquio tra Salvini e Giorgetti.

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