
L'Editoriale
Venerdì 04 Luglio 2025
Il diritto a una morte dignitosa conta di più
ITALIA. «It’s up to me (Dipende da me)». Lo dice Laura Santi, una donna affetta da sclerosi multipla da venticinque anni che ha ottenuto di poter essere aiutata a morire poiché la sua condizione assolve ai requisiti stabiliti dalla Corte Costituzionale per il suicidio medicalmente assistito: irreversibilità della patologia; sofferenze intollerabili del paziente; dipendenza da macchinari o altre terapie di sostegno vitale; capacità di prendere decisioni in modo libero e consapevole.
Cosa comporta avere in mano un’«autorizzazione a morire»? Certamente la possibilità di mettere fine a una sofferenza generalizzata data dall’aggravarsi della propria malattia, ma anche avere la libertà di scegliere autonomamente. Laura ha detto che «lascerò decidere al corpo quando dire basta», per ora «ho ancora voglia di vivere». Il suo caso si colloca in quella «eccezione» che rende non punibile per legge un intervento medico di questo tipo.
Ma garantire a tali persone di poter decidere quando morire equivale a introdurre il «suicidio assistito»? Qui le opinioni divergono. Chi dice che si tratta di fare una legge che conceda una limitatissima depenalizzazione all’«aiuto al suicidio». Chi dice che comunque si lede il principio di «indisponibilità della vita umana» e chi vorrebbe un chiaro riconoscimento del «diritto di morire».
Determinante sarà il ruolo assegnato al Servizio Sanitario Nazionale. Se gli venisse data una «parte» nel dare la morte, si violerebbe il dettato costituzionale che dispone il diritto ad essere curati e non di morire. Diritto, quello di morire, più volte negato anche dalla Corte. D’altra parte nessun cittadino può essere abbandonato dallo Stato, soprattutto chi è ammalato o sofferente. Quindi bisognerà trovare una soluzione che permetta a un operatore qualificato di assistere l’ammalato che, avendo i requisiti, ha deciso di terminare la sua vita. Poiché si tratta di «agevolare» il proposito di togliersi la vita di una persona, nulla andrebbe imposto ai medici per rispetto della loro libertà di coscienza. Lasciando la partecipazione a titolo volontario. Ma chi valuta le richieste? Il governo propone un Comitato nazionale per garantire una certa uniformità, per l’opposizione sarebbero meglio comitati regionali più vicini alla gente.
La questione etica in ogni caso si pone
Il rispetto della persona ammalata o anziana non riguarda solo il momento della morte, ma ogni giorno che la precede. Su questo servirebbe un confronto che riconosca il valore della libertà individuale e insieme la tutela della vita dei più fragili. Altrimenti il pezzo di carta che autorizza a morire diventa un permesso ad abbandonare la vita, se non un dovere ad andarsene. È importante non fare passi che potrebbero spegnere la voglia di vivere, ma ancora più importante è permettere a tutti un adeguato percorso di cure palliative (in alcune regioni non è ancora garantito) e di sostegno effettivo alle famiglie (quando tanta dedizione verrà riconosciuta come un servizio reso alla collettività?).
Fissarsi solo sul «fine vita» rischia di non valorizzare al meglio il tempo del «durante vita». Anche quando sembra che non ci sia più nulla da fare, c’è ancora molto da fare in termini di vicinanza, assistenza, sostegno umano e spirituale.
Poter «morire con dignità» non può ridursi a una specie di «visto» per uscire da questo mondo, nemmeno in nome dell’autodeterminazione. Non siamo liberi solo perché possiamo decidere senza condizionamenti, lo siamo perché in relazione con gli altri. Libertà e responsabilità vanno a braccetto. Se si concede una deroga al dovere di tutelare la vita umana lo si faccia suscitando il più alto senso di solidarietà. Un compito che fa parte del senso delle nostre istituzioni. Accompagnare una persona che muore vale più del curare, perché implica il dono di sé. Cosa c’è di più evangelico di questo?
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