Il doppio cognome rischia di diventare una causa di dissidio

La sentenza della Corte Costituzionale sul doppio cognome mette fine a un’epoca che forse possiamo far risalire all’antica Roma: quella del «pater familias». Secondo la Consulta «è discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio» la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre.

Dunque gli italiani di domani nasceranno col doppio cognome, quello di entrambi i genitori, come nel mondo ispanico. Quando viene alla luce, un figlio assume i cognomi di mamma e papà, a meno che i due decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto quello di uno dei due. E sempre i genitori decideranno quale dei due ha la primazia. E in mancanza di un accordo tra mamma e papà? A quel punto interviene il giudice, in conformità di quanto dispone l’ordinamento giuridico. Un ordinamento giuridico che ancora non c’è. Andando oltre i tecnicismi legali (complicatissimi e antichissimi, che si perdono nella notte dei tempi del diritto) la sentenza del «giudice delle leggi» avviene nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, poiché entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale.

Quella del nome del padre era una tradizione talmente forte che il codice civile neppure riteneva necessario legiferare in materia, si potrebbe dire che apparteneva al diritto consuetudinario. Si occupava solo dei figli nati fuori dal matrimonio. Ma anche in questo caso nessuna novità, il codice civile si limitava a dare la prevalenza al cognome paterno.

La Corte presieduta da Giuliano Amato ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi. Sarà compito del Legislatore regolare tutti gli aspetti connessi a questa decisione. E non sarà un compito facile.

Quella del nome del padre era una tradizione talmente forte che il codice civile neppure riteneva necessario legiferare in materia, si potrebbe dire che apparteneva al diritto consuetudinario. Si occupava solo dei figli nati fuori dal matrimonio. Ma anche in questo caso nessuna novità, il codice civile si limitava a dare la prevalenza al cognome paterno. Come avrebbe potuto essere il contrario? In Italia si procedeva di padre in figlio e tutto finiva lì. Certo, se è vero che attribuire automaticamente il cognome del padre va contro la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e contro l’articolo 3 della Costituzione, uno dei principi supremi della nostra Carta (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, nessuna discriminazione, nemmeno sul genere dunque) è anche vero che era una tradizione accettata abbastanza pacificamente: nessuno ci vedeva il retaggio di una concezione patriarcale, bensì una tradizione familiare condivisa, lineare e chiara. Ora si rischia di inserire anche il cognome tra i casi di dissidio tra padre e madre (o tra i pretesti in caso di litigio) e di affidare all’arbitrio di un giudice la decisione finale. Tra le conseguenze di questo nuovo istituto c’è la perdita del cognome di famiglia: pensate all’albero genealogico, avremo i cognomi che si confondono di generazione in generazione (anche se non è un problema nostro, per fortuna per quel tempo noi saremo morti). Per questo è importante che il Legislatore faccia la sua parte approfondendo la questione e i capillari aspetti pratici, lasciando pochissimo spazio all’arbitrio giurisdizionale. Ma il Parlamento ha sempre dimostrato la completa ritrosia (per paura di perdere consensi di qua e di là) quando si è trattato di legiferare sui temi legati alla famiglia. E infatti quello della Corte è uno dei tanti casi di invasione (suo malgrado) di campo.

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