Il dovere del ricordo non venga offuscato

Il 18 marzo. La senatrice Liliana Segre non cancellerà mai il tatuaggio che ha sul braccio perché non vuole dimenticare quel che successe nel febbraio del 1944 ad Auschwitz, quando un soldato tedesco glielo incise sulla pelle. Anzi, ha persino espresso il desiderio che quel numero - 75190 - venga scritto sulla propria tomba, e vuole che sia così perché altri non dimentichino.

Liliana Segre non ha ancora perdonato, ma non ha mai covato sentimenti di rivalsa nei confronti di alcuno, passando la vita a insegnare ai giovani studenti che incontra nelle scuole la pace, l’amore e la libertà, con la speranza che qualcuno di loro diventi, un giorno, «una candela della memoria». Potranno i familiari delle vittime del Covid che chiedono giustizia - un giorno - fare lo stesso, raggiungendo lo stesso distacco e la stessa serenità? Tre anni dopo la sera di quel drammatico 18 marzo 2020, quando l’interminabile fila di carri militari lungo via Borgo Palazzo venne inconsciamente immortalata da un giovane steward di Ryanair dal balcone di casa, diventando in poche ore il simbolo di quella tragedia collettiva, la vera domanda di fondo resta (e deve restare) questa.

C’è qualche analogia tra l’indicibile barbarie dell’olocausto e la terribile ondata di morte provocata dalla pandemia? Certamente no, la risposta è scontata, ma l’elaborazione di lutti collettivi di così vasta portata e con impatto emotivo tanto devastante è sempre molto complessa. Tra il dolore di chi ha perso qualcuno tra gli affetti più cari, letteralmente ridotto in cenere dall’odio nazista, e quello di chi l’ha perso senza una parola d’addio, senza una carezza, senza un abbraccio, senza nemmeno poter deporre un fiore sulla sua tomba, convinto che ad uccidere siano state l’incapacità e l’insipienza della classe politica e dei vertici degli ospedali, c’è qualche differenza? Forse sì, ma il dolore è dolore, e da qualunque parte venga, alla fine, fa male, molto male. Vedersi tagliare i legami più intimi nel modo in cui ciò è avvenuto tra il febbraio e il marzo del 2020 è difficile da metabolizzare, ma pensare che una sentenza di un tribunale possa lenire quel dolore e chiudere in qualche modo la partita con la Storia, è solo un’illusione.

Anche se l’unica aperta in tutto il mondo, dove pure sono accadute le stesse cose, l’inchiesta della Procura bergamasca andava fatta? Tecnicamente sì, c’era un esposto a cui dar corso, c’erano domande a cui dare – o cercare di dare - risposte. Ma discutere adesso dell’opportunità di quel passo ha poco senso, il dado è stato lanciato e il Rubicone è stato varcato ormai tre anni fa. Spetterà ora ad altri giudici stabilire se tutto quanto raccolto nel corso delle indagini sia veramente imputabile a qualcuno oppure no. L’aggiornamento del piano pandemico 2006, così tanto evocato allora come nelle ultime settimane, poteva cambiare il corso della pandemia? Anche se pensato per normali virus influenzali? Se viaggiamo in auto senza cintura di sicurezza e dalla direzione opposta ci travolge un Tir che avanza a cento chilometri all’ora, aver allacciato i dispositivi di protezione individuale modificherebbe la nostra sorte? È ovvio che le cinture vadano allacciate sempre e comunque, ma - seppur cinicamente - è di questo che stiamo parlando.

Quella del mancato aggiornamento è davvero la responsabilità di una persona sola o, piuttosto, almeno moralmente, è una responsabilità collettiva? Se l’Italia (e l’Europa, ma in realtà quasi tutto il mondo occidentale) ha delocalizzato la produzione di mascherine (e di altri dispositivi necessari per fronteggiare il virus) in Cina e nel Sud est asiatico, là dove l’emergenza è scoppiata, lasciandoci così senza i «dpi» di cui avevamo estremamente bisogno, di chi è la colpa? C’è un solo responsabile o ce ne sono molti? Non siamo un po’ tutti responsabili, soprattutto se alle urne, quando si tratta di votare per scegliere a chi affidare le sorti del Paese, andiamo in quattro ogni dieci? E se proprio vogliamo dirla tutta, chi allo scoppio della pandemia riempiva giornali e tv con appelli a vivere pienamente le città perché il Covid era poco più di un’influenza non ha – almeno moralmente – contribuito al dilagare della pandemia? E nemmeno chi (ancor peggio), nella seconda ondata, boicottava le campagne vaccinali? Domande complesse, per le quali trovare risposte «giuste» - che sappiano cioè commisurare la giustizia con l’equità, la legge con la ponderatezza, il primato della politica con la doverosa azione giudicante - sarà difficile, se non impossibile.

Ecco perché, al di là di quelli che eventualmente verranno percorsi nelle aule dei tribunali, è necessario compiere passi diversi, alti, per superare la netta contrapposizione tra le istanze di chi si sente «derubato» dei legami più intimi e profondi e chi, invece, da queste istanze si sente offeso e ferito. E sono in tanti. Perché in tanti hanno veramente rischiato la propria vita per salvare quella degli altri, uomini e donne con cui non avevano alcun legame di sangue, ma che per una promessa fatta ancor prima a se stessi,hanno scelto di mettersi totalmente in gioco per aiutare gli altri, per aiutare gli altri a continuare a vivere. Anche a costo della propria morte. Bisogna tener conto pure di questo, non possiamo dimenticarlo.

Ecco perché è forse arrivato il momento di innescare il sentimento dell’antica «pietas»: sono la comprensione prima e il perdono poi a dover farsi strada e aprire il cuore alla speranza e al futuro, perché la triste sorte di chi ci ha lasciato non risulti vana, e sproni chi ci governa a non farsi trovare impreparato di fronte alle inevitabili pandemie future, rimediando davvero ai deficit emersi allora, pur in una sanità d’eccellenza.

I morti di Covid non sono solo di qualcuno, sono i morti di tutti, di una comunità intera - quella bergamasca - che non è mai stata così unita come in quei terribili mesi: il lockdown ci teneva chiusi in casa, ma il nostro cuore era aperto al cuore di tutti, era in dialogo col cuore di ciascuno. E infine, in tutta questa terribile vicenda, non devono esserci «vittime» da una parte e «semplici» morti dall’altra, non è giusto. Possano i vivi ricordare senza odio nel cuore, possano i morti riposare nella pace dei giusti.

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