Il leader si sottrae
all’incubo liquefazione

Luigi di Maio se ne va. Non come Cincinnato: non torna alla natia Afragola per riprendere la vita di qualche anno fa. Resta comunque vestito da ministro degli Esteri. Se ne va piuttosto come uno che spera presto di essere richiamato per assenza di concorrenti. Cosa che proprio nessuno sa se mai accadrà. Probabilmente no. In ogni caso, Di Maio se ne va a quattro giorni dalle elezioni in Emilia Romagna. Che per il M5S saranno un disastro di tali dimensioni da rasentare la sparizione. Dopo aver perso sei milioni di voti dal 2018 ad oggi, Di Maio non ha voluto accollarsi la responsabilità delle prossima, annunciatissima sconfitta elettorale. In effetti, quando lui non sarà più sul podio a comandare, risulterà di scarsa soddisfazione martedì prossimo mirare a lui con le freccette per il disastro emiliano. Lui sarà già acqua passata. Personificazione di un ciclo che si è chiuso.

La grande paura dei grillini è che tutto ciò finisca all’improvviso allo scoccare della mezzanotte, quando la carrozza dorata tornerà ad essere una zucca. È per questo che Di Maio se ne va: per non diventare – ma di fatto già lo è – colui che portò il Movimento dalle stelle alle stalle. Lo sanno i deputati e i senatori che fanno le valige e traslocano, chi verso la Lega, chi al Pd, chi al gruppo Misto per prendere tempo, alla ricerca di una improbabile ricandidatura; e lo sanno pezzi interi del Movimento che si staccano come pezzi di ghiacciai che si sciolgono. L’incubo è proprio questo: lo scioglimento, la liquefazione.

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