Il linguaggio è sostanza, il degrado della politica

ITALIA. Il linguaggio è certamente forma, ma nel contempo è anche sostanza. Al riguardo il filosofo Soren Kierkegaard scrisse: è «ironico che proprio per mezzo del linguaggio un uomo possa degradare sé stesso».

Si riferiva, ovviamente, al linguaggio scritto o parlato. Il problema, negli ultimi decenni e, in particolare, negli ultimi anni ha assunto un progressivo peggioramento. Il degrado è stato moltiplicato in maniera preoccupante dall’uso (e dall’abuso) dei social. Ma qui si vuole guardare al caso, più limitato, del livello linguistico parlato dalla politica. Non vi sono dubbi che l’apparire del presidente degli Usa sulla scena mondiale ha stravolto ogni precedente criterio. Già nel primo mandato e più ancora in quello presente, Donald Trump utilizza le dichiarazioni pubbliche come un’arma (che va dal temperino alla bomba atomica). Egli è l’indiscusso campione mondiale delle parole minacciose, del sarcasmo gratuito, del disprezzo feroce.

In Italia il degrado del linguaggio ha una sua particolare fisionomia

Il fenomeno ha preso piede (è il caso di dirlo) in larga parte del sistema politico del nostro Paese. Tra i partiti della maggioranza ha connotati peculiari. Sul piano formale il linguaggio dei parlamentari e dei ministri della maggioranza fa abuso di stilemi mediocri, di parole vaghe o insignificanti, ma soprattutto non teme la contraddittorietà: ciò che è stato detto ieri può essere agilmente modificato nel suo opposto domani. A loro sfugge il valore del principio di «non contraddizione», che fu oggetto della riflessione di Parmenide alcuni millenni avanti Cristo. Al contrario, la contraddittorietà viene ritenuta un pregio, essendo segno del criterio dialettico consacrato da Hegel.

Di fronte a tale situazione sarebbe di grande aiuto per l’Italia fare un’accurata analisi dell’uso del linguaggio da parte dei politici di destra. Dietro i loro quotidiani interventi, fuori e dentro il Parlamento, vi è una precisa strategia, rigorosamente orchestrata. Essa si muove su due binari, la renitenza e la propaganda, utilizzabili singolarmente o congiuntamente. Al riguardo possono essere utili alcuni esempi. La renitenza viene esercitata per evitare di parlare di argomenti sgraditi. Lo ha fatto la premier in occasione della celebrazione della strage del 2 agosto 1980, evitando di riconoscere che si trattava di una strage fascista. Tale ripudio delle parole «fascismo» o «fascisti» viene esercitato con costanza anche dal presidente del Senato. Il criterio della propaganda emerge ogni giorno, in varie maniere e con diverse modalità. In primo luogo, nella narrazione dell’attività del governo, rispetto alla quale si deve ogni volta ripetere che tutto va bene. In tali circostanze al deputato o al senatore della maggioranza è vietato usare la parola «Paese», ma si deve parlare di «Nazione», espressione assai in voga durante il periodo fascista.

«Il Governo Meloni»

In merito agli strumenti di propaganda vige una sorta di «ordine di servizio» per i parlamentari che prendono la parola in luoghi istituzionali o davanti al microfono di un giornalista. In tali circostanze è vietato dire soltanto «il governo», ma occorre scandire sempre «il governo Meloni», come se gli italiani non sapessero come si chiama la presidente del Consiglio. L’importante è martellare sempre e comunque i cittadini con il cognome della premier.

In questa gioiosa orchestra di numerosi dilettanti allo sbaraglio vanno misurati meriti e demeriti. Da fonti accreditate viene fatto sapere che nella maggioranza stanno studiando alcune regole ferree. Si ipotizza che il parlamentare, il quale non rispetti le regole comunicative, può ricevere un rimprovero; se l’errore viene ripetuto più di cinque volte gli si chiederà di dimettersi. Di fronte a tali ipotesi, viene da chiedersi quale possano essere le conseguenze per Matteo Salvini. Niente paura: il leader della Lega è un «fuori quota» per superiorità indiscussa. Come si fece all’epoca per il ciclista Costante Girardengo, tenuto fuori dal Giro d’Italia.

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