Il ministro tecnico
una scelta politica

Luciana Lamorgese, prefetto della Repubblica. Figlia di Italo, anch’egli prefetto negli anni ’70. Una tradizione familiare di servizio alle istituzioni. È questo l’aspetto che colpisce maggiormente nella scelta, operata dal Capo dello Stato e dal presidente del Consiglio, di nominare ministro dell’Interno un prefetto. Per paradossale che possa sembrare, puntare su un «tecnico» per il Viminale è un segnale squisitamente politico. Nel senso alto e nobile della parola: scelta politica perché orientata al servizio della polis, della comunità. Da più parti si è sostenuto che dal Colle erano stati fatti pervenire segnali, affinché si affidasse l’incarico a un prefetto.

L’ipotesi – poi concretizzatasi – non riguardava soltanto la persona (sulla quale evidentemente vi è stato un forte consenso), ma si focalizzava sul «profilo» istituzionale adeguato nelle condizioni presenti. Alla decisione, infatti, non possono essere state estranee almeno due considerazioni: evitare che il ministro dell’Interno avesse una marcata coloritura di partito, al fine di non favorire polemiche pretestuose; garantire che le scottanti questioni di competenza del ministero venissero gestite con la massima competenza e senza forzature ideologiche o estremizzazioni eccessive nell’azione quotidiana su temi «caldi» come l’immigrazione, la sicurezza, il controllo del territorio.

Era necessario mettere fine a un periodo di accese polemiche, ma – ancor più – era indispensabile voltare pagina rispetto all’insostenibile protagonismo dell’ex ministro, che utilizzava il suo ruolo come grancassa mediatica, piuttosto che esercitarlo con la necessaria prudenza istituzionale. Nei 14 mesi di permanenza al Viminale Salvini aveva operato scelte che avevano alimentato un clima di scontro e di contrapposizione, divenuto sempre più stridente con i principi di buon governo. In questa delicatissima fase - che vede il nostro Paese al centro (geograficamente e politicamente) del «nodo» migrazioni - è indifferibile riprendere il bandolo di politiche di «governo» dell’epocale fenomeno, evitando che esso sia concepito in base all’assurda logica dei porti chiusi. Soltanto la miopia e la vocazione xenofoba del leader della Lega avevano condotto l’Italia in un vicolo cieco politico, spingendo parte dell’opinione pubblica a considerare sempre l’immigrato un potenziale delinquente. Su tale terreno si potrà misurare la sperimentata attitudine del ministro Lamorgese a guardare ai problemi con un orizzonte elevato, mirato alla risoluzione dei problemi piuttosto che al loro «soffocamento».

Il ministero dell’Interno è – in ragione delle sue numerose e importantissime funzioni – il «cuore» dell’amministrazione pubblica. Lo è al centro, ma ancor più in periferia, dove le prefetture sono luogo di snodo sia delle amministrazioni statali, sia del raccordo tra Stato e comunità locali. «Riconvertire» la linea operativa tenuta al Viminale durante lo scorso governo per riportarlo alla sua naturale vocazione di istituzione garante della sicurezza come «diritto di libertà» e non come licenza di sparare; per valorizzare la sua antica tradizione di ascolto delle esigenze delle comunità; per ridare spazio alla sua capacità di elemento fondamentale della coesione sociale nel territorio: questi i terreni sui quali l’attuale ministro è chiamato a operare.

Le particolari doti professionali, il rigore etico e la risolutezza di carattere dimostrate dal prefetto Lamorgese nella sua lunga carriera sono la garanzia che il cambiamento ci sarà e sarà visibile. Non roboanti proclami, niente strali quotidiani, totale disinteresse a coltivare una personale visibilità. Sono questi gli elementi del cambiamento che è già in corso al Viminale e del quale si vedranno presto frutti tangibili.

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