Il Pd, la storia e la giraffa

Su una possibile vittoria elettorale Letta, probabilmente, non si fa troppe illusioni. Più realisticamente, potrebbe puntare a un secondo obiettivo: conquistare la palma di primo partito nazionale. Sarebbe, è vero, una vittoria più di bandiera che di sostanza, ma pur sempre di una vittoria si tratterebbe. È in fondo anche l’unico modo per il segretario dem di salvare la poltrona. Altrimenti è facile che la sua leadership torni in discussione, come si usa fare, ormai da tempo, nel Pd con i segretari responsabili di prove non esaltanti.

Ottenendo in Parlamento il primato di forza di maggioranza relativa, guadagnerebbe inoltre al suo partito l’opportunità di avanzare la candidatura per la formazione di una maggioranza, secondo una consuetudine invalsa da tempo. Un atto, si dirà, sempre formale. Non gli eviterebbe, infatti, di restare all’opposizione, visto che al presente si trova a corto di alleati. Ha siglato un accordo, peraltro solo elettorale, con la Sinistra italiana di Nicola Fratoianni e Europa verde di Angelo Bonelli, che non fanno mistero di essere intenzionati a riprendere la loro libertà d’azione, una volta entrati in Parlamento. Che il risultato elettorale lo premi o meno, il Pd si troverà, in ogni caso, faccia a faccia coll’irrisolto dilemma storico della sinistra italiana, che l’ha vista vanificare le sue ambizioni di conquista, senza ricorrere a «Papi stranieri» (ossia a figure di politici esterni chiamati in soccorso), di Palazzo Chigi.

Le strategie seguite, nella sua lunga storia, dalla sinistra per divenire forza di governo si riducono sostanzialmente a due: la formazione di uno schieramento aperto al Centro (nella Prima Repubblica la Dc, nella Seconda la Margherita degli ex democristiani) e, in alternativa, il lancio della propria candidatura a coagulare tutto il campo progressista, senza ricorrere a mediazioni e compromessi con altre forze, destinati puntualmente a dissolversi al primo inciampo. La prima strategia è stata di gran lunga la più sperimentata. È stata la grande novità del «partito nuovo» lanciato nel marzo del 1944 da Palmiro Togliatti con la «svolta di Salerno» e seguita ininterrottamente anche oltre la caduta del comunismo. Dopo la parentesi (2007-2018) del «partito a vocazione maggioritaria» lanciato da Veltroni, è stata ripresa di nuovo negli ultimi tempi con la proposta del «campo largo dei progressisti».

Letta non è stato in grado, o non ha voluto, sciogliere il nodo, forse perché entrambe le strategie avevano dei costi elettorali che non era disposto a pagare. È rimasto così in mezzo al guado, dopo aver tentato di abbracciare alternativamente tutte e due le soluzioni. Prima ha siglato il patto con Calenda, con ciò prefigurando una sorta di Bad Godesberg (la svolta operata nel 1959 dal Partito socialdemocratico tedesco con cui diede l’addio al marxismo) che avrebbe potuto fare del Pd a pieno titolo un partito riformista. Saltato il patto con Azione, ha ripiegato poi sulla solita strategia di pas d’ennemis à gauche (nessun nemico alla sinistra), che ha sempre inchiodato lo schieramento progressista ad un orgoglioso isolamento. Abbracciando la seconda opzione, oltre a rinunciare all’ambizione di animare in prima persona la forza alternativa alla destra, non si è accorto che in questo modo affossava lo stesso progetto del «campo largo dei progressisti», su cui si è attestato il partito dalla segreteria Zingaretti sino ad oggi. Con la nascita della nuova formazione Azione-Italia viva, si può scordare di associare le forze moderate al campo largo che comprenda l’estrema. Calenda e Renzi non sono mammolette. Sono politici determinati a stringere accordi solo alle loro condizioni. Lo s’è visto con il patto Calenda-Letta. Imponendo il suo programma, il segretario di Azione ha fatto capire che, o si accetta la sua agenda, o non se ne fa nulla.

È finita, insomma, la stagione dei cosiddetti «cespugli», piccoli arbusti destinati a vivere solo all’ombra di un albero di alto fusto (l’Ulivo?). È finita, più in generale, l’epoca in cui la sinistra coltivava l’ambizione di interpretare il ruolo della Giraffa (così nel 1946 definì il Pci il suo leader Togliatti), un animale che col suo lungo collo vede più lontano degli altri. Fuor di metafora, è finita l’epoca in cui la sinistra nutriva l’ambizione di guidare tutte le forze in cammino per realizzare le «magnifiche sorti e progressive» della storia. Nessuno più crede nelle immancabili sorti progressive. Nessuno può più aspirare a essere la Giraffa della storia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA