Il Pnrr va attuato, cambiarlo è un rischio

Nella campagna elettorale in corso, tra beghe, invettive, slogan fini a sé stessi e reciproche accuse pretestuose, si è aperta una delicatissima discussione sul «destino» del Piano di ripresa e resilienza. Giorgia Meloni è più volte intervenuta rimarcando la necessità di una revisione del Pnrr attraverso una nuova contrattazione con la Commissione europea.

Tale determinazione è motivata dal protrarsi dei problemi legati alla pandemia, dai contraccolpi delle sanzioni applicate alla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina, che stanno mettendo in difficoltà vari settori dell’economia; dall’aumento dell’energia; dalla significativa crescita dell’inflazione, che contribuisce ulteriormente all’aumento dei prezzi per i consumatori. Già il 19 marzo scorso la leader di Fratelli d’Italia, in occasione dell’evento «Pnrr: priorità e futuro dell’Italia», ha consigliato a Mario Draghi «di recarsi alla Commissione europea per chiedere una revisione degli obiettivi del Pnrr, che devono essere concentrati sulle conseguenze della crisi». Non si è fatta attendere la risposta del commissario europeo Paolo Gentiloni, che nel giugno scorso davanti alla platea dei giovani industriali ha affermato: «Chi propone di rifare il Piano sbaglia perché si rischierebbe di apparire poco seri e non si avrebbe alcuna possibilità di riproporre questo metodo - debito comune, obiettivi comuni - nei prossimi anni». Ha poi aggiunto che «l’effettiva funzionalità e la chiusura del Piano italiano hanno riflessi non solo sulla nostra economia, ma anche sulla dimensione europea».

Il governo Draghi, pur tra varie difficoltà, ha mantenuto gli impegni con l’Europa raggiungendo tutti i 51 obiettivi del Pnrr previsti entro il 30 giugno 2022. Ciò ha reso possibile l’assegnazione all’Italia della seconda rata da 24 miliardi, dopo quella di 21 miliardi ricevuta ad aprile per la prima scadenza di dicembre 2021 e dopo l’anticipo di 25 miliardi di agosto 2021. Vi sono ora ulteriori 55 obiettivi da raggiungere entro dicembre 2022 che valgono 22 miliardi, cui vanno aggiunti 18,4 miliardi da erogare entro giugno 2023. Si tratta di due tranche per oltre 40 miliardi complessivi, che ci saranno assegnate solo se il nuovo governo rispetterà il crono-programma previsto dal Piano. La situazione si presenta molto complicata perché il nostro Paese si troverà fino a ottobre senza Parlamento in attività. I disegni di legge non ancora approvati sono decaduti con lo scioglimento delle Camere e sarà quindi necessario ripercorrere l’iter per la loro approvazione. È perciò assai difficile ipotizzare che possano essere raggiunti gli obiettivi previsti entro dicembre 2022. Ciò sarebbe stato possibile se il buon senso e la volontà di anteporre l’interesse generale a quelli di parte avesse consigliato di andare al voto all’inizio del nuovo anno. Stando così le cose, non è agevole immaginare quali posizioni andrà concretamente ad assumere chi verrà eletto. Un approccio più vicino ad una linea politica pro Europa dovrebbe suggerire al nuovo governo la richiesta di uno slittamento di qualche mese rispetto alla scadenza di dicembre che, se accettato, consentirebbe il successivo rientro nel programma concordato. L’approccio più lontano da questa è proprio quello che porterebbe alla richiesta di negoziare un nuovo Pnrr. Ciò comporterebbe la necessità del parere del Parlamento nazionale, nonché del Parlamento, della Commissione e del Consiglio Ue. Il pericolo è che, nel frattempo, possa innescarsi una forte contrapposizione tra governo italiano e Commissione Ue che potrebbe avere come estrema conseguenza la rottura del contratto a suo tempo stipulato, con la conseguente richiesta da parte della Commissione di restituire, «per inadempimento», le risorse già assegnate all’Italia.

Ecco perché è bene sapere che il 25 settembre prossimo ogni cittadino italiano è chiamato ad assumersi una duplice, decisiva e onerosissima responsabilità: eleggere il nuovo governo e indicare se si intende o meno proseguire il cammino europeo intrapreso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA