Il sorriso di Sanremo
per l’Italia che resiste

Lo strano Festival numero 71 parte con la musica dei balconi, l’acuto accorato di «Fai rumore», Diodato che ci porta indietro di un anno. L’edizione 2021 riparte da un accenno a quel che è successo e ancora accade. Si è sempre detto che Sanremo è lo specchio appena deformante del Paese e allora è logico che provi a rappresentarlo in qualche modo. Il Teatro Ariston ridotto a studio televisivo è apparentemente quello di sempre, ma la scenografia incarta il palco e i protagonisti secondo una regia stretta. La platea è un infinito scuro verso cui rivolgere lo sguardo a perdere. Solo quelli bravi sanno come stanarci l’ispirazione, gli altri è normale che soffrano qualche difficoltà. Per fortuna c’è Fiorello con Amadeus che gli fa da spalla conducente.

Se ieri il Festival di Sanremo era una messa cantata, un rito popolare da assolvere indipendentemente da tutto, oggi è nelle intenzioni del servizio pubblico una cura di alleggerimento, un giochetto catartico che semmai appesantisce per l’infinita lunghezza della narrazione. Cinque ore e passa di spettacolo sono una maratona non solo canora che mette alla prova anche i fan più coriacei. D’altronde l’idea di entrare nella storia della canzone italiana, attraverso l’amarcord e la modernità dei linguaggi, prevede tempi dilatati. E poi c’è la rappresentazione del reale, che a Sanremo ha sempre avuto la sua parte. Il Covid è ancora tra noi, sebbene pochi, anche comprensibilmente, ne parlino nelle canzoni.

Amadeus da direttore artistico di un’edizione specialissima, ha scelto di espandere la musica del Festival verso il futuro ricordando a tutti il passato. La musica così diventa un balsamo a rilascio lento. Attraverso il gioco aneddotico lo sguardo volge al target tradizionale, il palinsesto sonoro contemporaneo serve a catalizzare l’attenzione di un altro pubblico. Il coprifuoco tanto tiene tutti a casa e chissà se sarà un vantaggio per i numeri di questo Festival. A parte il calcio sparso nell’arco della settimana, la concorrenza televisiva è minima, seppur l’offerta sia ormai larga e diversificata.

La Rai con questo Sanremo dell’eccezionalità punta su tradizione e cambio generazionale. Il Festival si rinnova, anche se non può fare a meno di rivedersi in un’Italia che ha seguito la sua storia costellata di canzoni. Del resto le canzoni, leggere che siano, sono la rappresentazione di un tempo, di un’estetica, di un periodo sociale. E allora si capisce perché «Fai rumore» è una canzone che ci apparterrà al di là della vittoria sanremese. Quelle parole, la melodia difficile e vincente hanno fatto da colonna sonora al nostro primo lockdown. Quel refrain per una stagione è diventato l’appuntamento quotidiano di una comunicazione interrotta, di un tempo sospeso che non sapevamo neppure cosa comportasse di preciso. La musica dai balconi ci ha salvato un po’ la vita, così come la tecnologia ci ha aiutato a superare le barriere di un silenzio imposto, di una solitudine non cercata.

Questo Sanremo senza pubblico in sala ci spinge a una riflessione, ci riporta al vuoto dei nostri teatri, al buio delle sale cinematografiche, alle luci appena riaccese di qualche museo. Se questo Festival così insistentemente voluto servirà ad aiutare in qualche modo il comparto della musica, i lavoratori dello spettacolo fermi da un anno, vorrà dire che un piccolo passo verso la ripartenza s’è fatto. E ancora una volta Sanremo avrà interpretato il suo ruolo di specchio dei tempi.

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