Il tecnico Draghi
l’acume politico

Ora che, dopo una gestazione molto riservata e di vertice, Draghi va in Parlamento, si comprenderà meglio la ragione del divario oggettivo tra gli entusiastici consensi raccolti dal presidente e il filo sottotraccia di delusione per la formazione di una squadra non certo delle meraviglie. Forse era eccessiva l’attesa, forse troppo ingenua l’idea di un governo dei migliori, forse si poteva comunque fare meglio, ma molto di più non era realisticamente possibile. La nostra è una democrazia parlamentare, non diretta, i cui pericoli proprio questa crisi ha evidenziato, tra utopie, capricci e piattaforme Rousseau per pochi intimi, e non è neppure una democrazia presidenziale, che consentirebbe scelte più ad personam, qui ferma a 8 soggetti su 23.

Della democrazia rappresentativa bisogna accettare non solo i pregi prevalenti ma anche i limiti. Il Parlamento, cioè lo strumento concreto per governare, è quello che gli elettori hanno voluto nel 2018. Già oggi non è lo specchio dell’ondata populista e sovranista di quel voto rancoroso pre Covid, ma non potendosi svolgere nuove elezioni, si possono solo fare i conti con la realtà.

Neppure super Mario può prescinderne, tanto più se i colori giallo e verde, quasi la metà delle Camere, sono sotto la sua stessa bandiera. Meglio se mai, accanto alle priorità Recovery e vaccini, forzare la mano su certi contenuti scomodi ma essenziali: prescrizione, immigrazione, pensioni, lavoro.

Del resto, se guardiamo al di là di nomi che fanno storcere il naso, Draghi ha tenuto per sé tutte le carte decisive. I capitoli principali del titanico piano di spesa dei fondi europei sono nelle mani sue, di sua fiducia diretta o di ministri che debbono chiedere il permesso: Agricoltura, Turismo, Mezzogiorno, Sanità, quest’ultima compreso il controverso sistema commissariale.

Su tutto il resto, che riguarda peraltro gli architravi del funzionamento ordinario dello Stato – Interni, Difesa, Giustizia, Scuola – i nomi offrono garanzie forti, in quanto affidate a personalità tecniche neutre o, per la Difesa, garantite dal marchio Nato, tornato di moda.

C’è, è vero, l’anomalia degli Esteri, con un deficit di autorevolezza e competenza uguale e contrario a quello del premier, ma qui garantisce Draghi stesso. La sua personalità visibile a livello mondiale soverchia talmente quella del numero due, che – come qualcuno ha scritto – gli resterà solo la relazione con l’Oceania. Controprova ne sia che per l’Europa, dove aveva ben operato Amendola, non si è ritenuto di riproporre uno specifico delegato. Sarebbe stata un’altra ombra senza sostanza. Chiunque nel mondo alzerà il telefono per comporre il prefisso 0039, cercherà direttamente Palazzo Chigi.

Rassicurati da queste considerazioni, resta solo da riflettere su un fatto e cioè che il metodo adottato nella scelta dei 15 politici, è stato realistico ma assai raffinato. Il merito va diviso con Mattarella, ma nella sostanza si può dire che Draghi abbia dimostrato acume più politico che tecnico.

Tanto più se nelle segrete stanze siano stati soppesati curricula e pizzini inviati dai capi partito, le scelte finali – in parte a sorpresa – sono state acute e in qualche caso perfidamente spiazzanti. Si pensi alla sottorappresentazione di Italia Viva o al lasciar passare i capi corrente Pd al lordo della vistosa gaffe di Zingaretti sulla rappresentanza femminile, chiesta in pubblico e contraddetta in privato. Ma dove la sottigliezza politica è stata più evidente è nelle scelte dentro il centrodestra, individuando candidati in qualche modo eterodossi, come il redivivo Brunetta, il draghiano Giorgetti o i fedelissimi di Zaia e Maroni. Forse persino Di Maio sta diventando eterodosso rispetto al corpaccione malmostoso dei 5 Stelle, lacerati da poltronite e nostalgie della foresta del vaffa.

La scommessa, tutta politica, è che gli ostaggi interni al Governo, già abituati a una dialettica interna ai loro partiti, riescano a tenerli a bada. Una scommessa pericolosa, ma vincibile almeno fino al 3 agosto, quando scatta il semestre senza elezioni. Ma è chiaro che più che mai sono i primi 100 giorni di Draghi quelli decisivi, auspicabilmente senza compromessi al ribasso.

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