In montagna l’equilibrio
tra limite e passione

«Ma quello è matto». Alzi la mano, chi, a proposito di Simone Moro e delle sue sfide sulle cime più alte del pianeta, non abbia, se non pensato, almeno ascoltato un giudizio del genere. Perché infilarsi in certi ambienti dove i rischi sembrerebbero dietro l’angolo? E perché andare così vicino ai propri limiti magari in qualche frangente pure oltrepassandoli? La risposta era già stata data dallo scalatore britannico George Mallory in tempi ormai remoti a chi gli chiedeva per quale ragione volesse scalare l’Everest: «Perché è lì», replicava lui candidamente.

Che poi è più o meno lo stesso concetto che ha sempre spinto il nostro alpinista bergamasco a tentare certe imprese: «Scalo le montagne perché mi rende felice» ha detto e scritto a più riprese. Tutto qui? Punto e a capo? Non proprio. Perché al di là della forza e del fascino che un’affermazione del genere può suscitare, bisogna capire cosa ci sta dietro esattamente. Bisogna cioè soffermarsi su come un percorso del genere viene affrontato. Detto altrimenti: c’è modo e modo di andare in montagna.

Tanto per intenderci: c’è più incoscienza nell’affrontare l’Himalaya preparandosi per anni, maturando la propria esperienza passo dopo passo, spedizione dopo spedizione e dimostrando in più occasioni di saper rinunciare al proprio obiettivo anche quando sembrerebbe a portata di mano o nell’avventurarsi sui sentieri della Presolana con le scarpe da ginnastica? La risposta nelle cronache quotidiane, anche le più recenti. «Proprio nei giorni scorsi – spiegava Alberto Redaelli, responsabile della XIX delegazione del soccorso alpino lombardo – abbiamo aiutato tre ragazzi bloccati sulla Grigna Settentrionale. Avevano calzature da tennis. Per questo abbiamo pensato di acquistare equipaggiamenti base, ramponi e imbragature leggere da fornire durante i soccorsi a chi è in difficoltà». Del resto i numeri parlano chiaro: gli interventi del Soccorso alpino a livello regionale, nel 2019, hanno raggiunto quota 1.259 rispetto ai 1.206 del 2016.

Un dato che non è legato solo alla maggiore frequentazione della montagna, ma anche e proprio a un tema culturale. Quello di affrontarla scientemente, con la dovuta preparazione e facendo propria al tempo stesso una cultura dell’insuccesso e della rinuncia come una componente naturale della propria vita, oltre che dell’andar per monti. Non è un caso che in più occasioni Moro, anche a poche centinaia di metri dalla vetta, abbia girato i tacchi e sia tornato a casa: «Bisogna accettare – ha scritto e ribadito durante molte conferenze – che l’esplorazione, ovvero l’arte del sopravvivere, passi attraverso un’altra arte: quella di saper rinunciare, impostando così il primo passo del successo futuro». Forse, in questa chiave, la difficoltà maggiore sta proprio nel riconoscere quando è il momento di fare marcia indietro. Perché – come sosteneva un altro grande alpinista, Kurt Diemberger – il tutto si gioca su un difficilissimo equilibrio tra il «sesto senso», ovvero quella «voce interiore» che altro non è che lo spirito di conservazione dell’uomo in determinate circostanze, e il «settimo senso», inteso come la spinta che invece ti porta a osare. Al netto dell’imponderabile, del crepaccio che si spalanca sotto i piedi all’improvviso e che è un po’ la tegola che ti piove in testa senza preavviso, la differenza sta proprio qui: nel saper dosare queste due componenti, nella conoscenza che è frutto di un percorso. E nella capacità di riconoscere i propri limiti e le proprie debolezze.

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