Inasprire le pene non produce sicurezza

ITALIA. Il «Pacchetto Sicurezza» del governo è fortemente segnato dalla cultura securitaria che si è diffusa anche in Europa negli ultimi due decenni, dopo aver eroso spazi alla cultura umanitaria che aveva caratterizzato la stagione precedente, e che oggi vive invece un passaggio critico.

Pensare le questioni sociali e i conflitti, per certa parte anche i reati, come «questioni serie», da affrontare con interventi di politica sociale ed educativa, fa i conti da tempo con il crescere di paure e senso di incertezza, con atteggiamenti segnati da distanze e da indifferenze. La risposta sempre più penale (controllo, restrizione, punizione) alle questioni di sicurezza apre a letture molto semplificate dei comportamenti e dei problemi, produce aspettative irrealistiche e lascia spazio ad ambivalenze. Eppure questa crisi la si vive mentre i reati sono in calo da un trentennio, in Italia - almeno per alcuni - più che in tanti altri Paesi del continente.

Creare nuovi reati ed inasprire le pene per quelli già esistenti rischia di produrre solo un’illusione di controllo e deterrenza. Anche gli orientamenti che stanno prendendo i provvedimenti riguardanti le carceri aprono a interrogativi. Si puniscono persino le «resistenze passive» nel quadro dell’inasprimento di pena per le rivolte in carcere e nei Centri di Permanenza per i Rimpatri: come non ricordare che l’innesco di queste proteste, a volte violente, sia stato in molti casi il permanere di condizioni di vita a volte veramente indegne di un Paese civile? Non solo per il sovraffollamento, ma anche.

Negli istituti dove si realizzano progetti educativi, incontri con realtà esterne, esperienze abbastanza diffuse di lavoro, dialoghi e percorsi con operatori (anche sulle offese arrecate alle vittime) non si registrano rivolte o necessità di giri di vite. Ma, allora, la questione non è forse quella di un arricchimento di tali percorsi? Di ampliamento delle esperienze di esecuzione penale esterna che desaturino gli istituti? Di arricchimento di tempi, esperienze ed occasioni all’interno degli istituti per lavorare con le persone detenute sulle loro scelte, sulle conseguenze dei reati, sulla colpa e sul riscatto? Magari aprendo esigenti confronti con le vittime, e con possibilità di offrire contributi alla vita sociale guadagnando una nuova rappresentazione del sé.

Il carcere non può essere, anzi è bene che non sia, l’unica risposta ai reati, tantomeno se segnati da debolezze personali, relazionali, da disagi mentali. La pena detentiva è ultima ratio, mette spesso in una struttura di costrizioni ed impoverimenti, che poco aiuta percorsi rieducativi, di revisione, di messa alla prova di sé, di maturazioni di responsabilità. Specialmente se la si ridisegna con nuovi vincoli, tratti più forti di segregazione e di espiazione, di isolamento e separazione dalla convivenza. Rinforzare le dimensioni educative e psicologiche nel lavoro «trattamentale» interno ha effetti positivi anche in termini di sicurezza. Ampliare occasioni di lavoro, di formazione e di coinvolgimento in processi sociali con soggetti esterni diminuisce drasticamente le recidive. Fa sicurezza. Certo, tutto questo va fatto bene, con competenze, attenzione e stretta collaborazione con le aree sicurezza e sanitaria.

Occorre poi essere responsabili nell’«attivare» le rappresentazioni della paura, perché i detenuti che compiono un reato dopo aver ottenuto un permesso sono solamente l’1,08%: per il restante 98,92 va tutto bene. E va ricordato che se più di sei persone detenute su dieci tornate in libertà negli anni successivi reiterano un reato, questo vale per quelli che durante l’esecuzione penale non hanno avuto una significativa esperienza formativa e di lavoro, e un adeguato accompagnamento. Chi ha potuto avere formazione e lavoro reitera - in moltissime realtà - solo in un caso su dieci. Fare dell’esecuzione penale un percorso esigente, con anche dimensioni di sofferenza inevitabili ma di miglioramento delle persone, è obbiettivo di sicurezza.

Non va negata al carcere, specie nel caso di reati gravi, di reati legati a culture e organizzazioni criminali, una funzione di deterrenza e di difesa sociale, diretta a impedire che si ingenerino vendette e giustizie sommarie, o si creino dinamiche di soggezione. Ma va salvaguardato, proprio ai fini della sicurezza, cioè della fiducia di poter ritessere convivenza responsabile e riconciliata tra donne e uomini responsabili e costruttivi, la dimensione tesa al cambiamento personale, al nuovo gioco di sé nel rifare relazioni nuove, anche con le vittime, dirette e indirette, delle scelte d’offesa del passato.

Un cenno solo, infine, ad un aspetto che non può non inquietare: privare i neonati e i piccoli di un contesto per loro di libertà, sereno e ricco di cure e stimoli vuol dire segnare la loro crescita. I primi anni di vita sono decisivi per bambine e bambini, che sono sempre innocenti, e hanno diritti loro, anche quando sono figli di persone autrici di reato. Per loro negli anni scorsi esisteva il progetto di «case protette» in cui vivere con le madri in condizioni di assicurazione di elementi di controllo. Il provvedimento parla invece di loro carcerazione. Anni fa la Caritas nazionale e l’Ispettorato dei Cappellani avevano realizzato una sperimentazione nazionale positiva. Il rischio della restrizione prospettata va in direzione certo contraria.

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