Inflazione e recessione richiedono
cure opposte

La situazione economica è complicata. Le autorità monetarie e i governi sono di fronte a scelte molto difficili. Decenni di debito facile e due lustri di politica monetaria iperespansiva si scontrano con eventi gravi, rari e inattesi come la pandemia e una guerra alle porte di casa. Nascono così due problemi, già molto acuti di per sé: inflazione e recessione, che quando si combinano generano uno scenario davvero tremendo. Il punto centrale è che sono due malattie che richiedono cure opposte e questo suscita il dilemma dei policy makers.

Andiamo con ordine e cerchiamo di capire i termini del problema. L’inflazione degli anni ’20 del Duemila, diversa da quella che abbiamo conosciuto negli anni ’70 e ’80 del Novecento, nasce da una carenza di offerta rispetto alla domanda di beni e servizi. Quindi tutti i prezzi salgono, soprattutto quelli dei prodotti che hanno al loro interno una rilevante componente di energia, per la fabbricazione o per il trasporto. La scarsità interessa alcuni prodotti agricoli fondamentali e quindi aumentano anche i prezzi dei generi alimentari. La situazione è esasperata dall’immensa creazione monetaria degli anni scorsi. L’abbondante liquidità dei mercati ha creato i presupposti perché, al primo inceppamento del sistema produttivo e distributivo, l’inflazione scoppiasse in modo virulento. E la pandemia e la guerra in Ucraina sono qualcosa di più di un marginale inceppamento. Secondo i manuali di economia la cura consiste nella restrizione monetaria e nell’aumento dei tassi di interesse. Questo frena la domanda e ristabilisce un equilibrio sul mercato dei beni e dei servizi che stabilizza la dinamica dei prezzi (purtroppo a un livello superiore al precedente).

L’altro aspetto critico di questo momento è il rischio della recessione indotta non già dalla carenza di domanda ma dall’impossibilità di soddisfarla per carenza di forniture, sia di materie prime sia di componenti intermedi. Successivamente la domanda crollerà perché l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie e dello Stato. Con l’inflazione il reddito nominale resta invariato, nel migliore dei casi, ma consente di comperare una minore quantità di beni: ecco perché le imprese vedono calare i volumi produttivi, anche se il fatturato nominale rimane invariato, ma nel frattempo sono aumentati i costi di produzione. Cosa dicono in questo caso i manuali di economia? Che la recessione si contrasta sostenendo la domanda con una politica fiscale espansiva (meno tasse e più spesa) e un’altrettanto espansiva politica monetaria (aumento della liquidità e riduzione dei tassi di interesse). Proprio il contrario di quello che serve per fermare l’inflazione!

Ecco il dilemma dei responsabili dell’economia, soprattutto della Banca centrale: accettare l’inflazione per scongiurare la recessione o contrastare l’aumento dei prezzi rischiando il crollo della produzione e dell’occupazione? Perché le due politiche sottostanti sono antagoniste e l’una non può convivere con l’altra. Per inciso: anche la politica fiscale è coinvolta: se lo Stato vuole fare del debito per aiutare le famiglie a fronteggiare il carovita, non troverà più la Bce pronta a sostenere il mercato dei Btp ma dovrà finanziarsi con sempre maggiore difficoltà e a costi crescenti.

Una scelta molto difficile, dunque, ma decisiva. La cosa peggiore sarebbe cercare di barcamenarsi in un impossibile compromesso fra le due strade (tentazione spesso sottostante le classi politiche deboli che hanno paura di qualunque decisione netta). La mia idea è che si debba da subito fare un intervento deciso contro l’inflazione e poi occuparsi del rilancio della crescita, non solo con la politica monetaria. Indugiare nel contrasto alla crescita dei prezzi rischia di innescare una spirale inflazionistica che darebbe il colpo di grazia alle speranze di scongiurare la recessione.

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