Intrighi politici
Dominio hi-tech

Si chiama «five eyes». Basta seguire lo sguardo di questi cinque occhi e giungiamo al centro del potere. Quello occidentale quantomeno. Un accordo tra servizi segreti di Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda sancisce in termini operativi il dominio del mondo anglosassone. Non stupisce quindi che nei 18 mesi di gestazione del nuovo accordo politico e militare denominato Aukus tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti non uno spiffero sia trapelato. La Francia è rimasta tagliata fuori. Non solo ha perso la fornitura di 12 sottomarini convenzionali, a suo tempo concordata con il governo australiano, ma si ritrova esclusa dal gruppo che conta. E il tutto senza che i servizi segreti francesi abbiano colto almeno un segnale.

La sfida alla Cina richiede partner affidabili e soprattutto obbedienti. A breve sono attesi nell’alleanza Giappone, Corea del Sud, alleati storici degli Stati Uniti, e l’India, che con Pechino ha un conto aperto da sempre. Il cambio di passo è il trasferimento nei cantieri di Adelaide della tecnologia di propulsione nucleare. Gli americani non condividono sistemi d’arma d’avanguardia. L’ultima volta è stato nel 1958 con lo scambio di alta tecnologia con la Gran Bretagna, adesso l’hanno fatto perché nell’area dell’Indo-Pacifico non esiste un’alleanza militare strutturata come la Nato. Il tempo stringe e otto sommergibili nucleari a bandiera australiana sono un deterrente per impedire alla Cina di osare affacciarsi sugli oceani. Non fosse così, Taiwan sarebbe perduta. E con l’unica isola cinese a democrazia parlamentare andrebbe perso l’oro bianco della rivoluzione tecnologica. La produzione dei microchip si riduce di fatto a un duopolio tra la sudcoreana Samsung e Tsmc, di Taiwan, appunto. Tsmc lavora su commissione per conto dei grandi giganti, da Apple a Tesla alla cinese Alibaba. Dovesse cadere Taipei nella sfera di influenza di Pechino, per le grandi imprese occidentali sarebbe un duro colpo.

La grande industria automobilistica, adesso in crisi per ritardi di fornitura dovuti ai rallentamenti causa Covid 19, sarebbe sotto scacco. E qui arriviamo al punto dolente. Perché l’Europa si è resa così vulnerabile in un settore strategicamente così importante? I numeri parlano chiaro. Secondo uno studio del Centro studi europeo di Bruegel, nel 1998 l’Europa aveva una quota di mercato del 22%, dei microchip adesso siamo al 3%. Thierry Breton, commissario all’Industria, scopre che i semiconduttori sono al centro della corsa tecnologica. Chi ha la leadership tecnologica e industriale, comanda il mondo. Tutto vero, ma bisognava saperlo prima. L’Europa si muove, ma sempre dopo. L ’Italia conta su pionieri come Federico Faggin, che avviò per primo la produzione dei microprocessori e ha creato Intel. Ma sia il fondatore sia l’azienda sono negli Stati Uniti a partire dal 1968. La Germania si è concentrata sull’orgoglio nazionale dell’ex cancelliere Gerhard Schröder: «Noi siamo i migliori costruttori di auto al mondo», era il suo motto. Ed eravamo già negli anni Duemila, ma poi invece di prevedere lo sviluppo verso l’elettrico, l’industria dell’automotive si è fissata sul diesel al punto da manomettere i dati delle emissioni.

A Bruxelles hanno seguito la capofila Germania perché l’auto è una vacca sacra e vale il 6% di tutta la forza lavoro e il 7% del Pil europeo. Schiacciata da questa miopia l’industria europea può ancora offrire ottimi prodotti, ma ha il tallone d’Achille della dipendenza tecnologica. Tutto questo è noto a Washington e spiega perché gli europei siano fuori dai giochi. Senza carte in mano si può gridare al tradimento, come i francesi, e fare l’occhiolino ai cinesi. Ma la libertà ha un prezzo e la sfida è chiara: o con la Cina o con l’Occidente.

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